Decreto Dignità: tra Luigi Di Maio e Stefano Rodotà
Le audizioni per il Decreto Dignità partiranno ufficialmente stasera. Ma il ministro del Lavoro ha copiato l’idea da un saggio di Stefano Rodotà
Stasera, con i sindacati, partirà ufficialmente il ciclo di audizioni sul famigerato Decreto Dignità. Le Commissioni Finanze e Lavoro della Camera sentiranno alle 20.30 Cgil, Cisl e Uil e, a seguire, Rete Imprese Italia e Assolavoro. Mercoledì sarà il turno di Confindustria, mentre giovedì toccherà all’INPS. Ma da dove ha tirato fuori quest’idea, il signor Luigi Di Maio? Da Stefano Rodotà.
Il provvedimento, che il Movimento 5 Stelle ha fretta di portare a casa, ha infatti origini più lontane. Ebbene sì, perché il nome stesso del famoso decreto può già dare qualche indicazione. E bisogna chiamare in causa un personaggio politico molto noto nella storia della Seconda Repubblica, soprattutto a causa della sua candidatura come presidente della Repubblica.
L’ex giurista, nel 2013, pubblicò un saggio proprio all’interno del suo “La Scuola Di Pitagora”, dal titolo “La Rivoluzione Della Dignità”. Si conosce con certezza la grande influenza che l’ex parlamentare esercitava in passato all’interno del Movimento 5 Stelle. Non a caso, era stato designato dai pentastellati come possibile presidente della Repubblica, successore di Napolitano. E il suo pensiero, espresso all’interno del saggio, ricalca quella che è, in qualche modo, l’intenzione di Luigi Di Maio.
Secondo Rodotà, la dignità, unione di libertà e uguaglianza, deve essere il faro che illumina il cammino della politica nel terzo millennio. Questa nozione si stacca molto dalla politica odierna, soprattutto quella degli ultimi anni. Anche per questo, il suo pensiero merita attenzione. Ad oggi, la piena realizzazione è ostacolata da una logica di mercato che, in nome della produttività e degli imperativi della globalizzazione, prosciuga i diritti.
L’opera di Di Maio
In qualche modo, tutti questi concetti sono stati ripresi dal ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro. Si può dire, dunque, che il decreto dignità sia paradossalmente una vera e propria opera di assistenzialismo, volta ad aiutare coloro che davvero hanno bisogno.
Da questo punto di vista, il provvedimento sembra far adottare al Movimento 5 Stelle una vera e propria svolta verso sinistra, come sempre pronosticato da Rodotà. Constatato il fatto che il PD abbia compiuto il percorso inverso, e negli ultimi anni sia diventato sempre più un partito elitario, il partito fondato da Beppe Grillo mira a raccoglierne l’eredità a sinistra.
In qualche modo, soprattutto in quest’occasione, è stata realizzata una sorta di controtendenza rispetto a quelle che sono le logiche del mercato. Se dall’altra parte del Governo (la Lega) ci si impegna sempre di più a fare propaganda e poco altro (la flat tax, provvedimento ad aliquota unica marcatamente a favore dell’imprenditoria, non dovrebbe arrivare prima del 2020), dalla parte “grillina” si incominciano già ad intravedere i primi segnali di un’effettiva politica sociale.
Non è un caso che la “nuova” classe dirigente del PD (quella costituita da Martina) stia già strizzando l’occhio ai nuovi decreti messi in campo dalla ditta Di Maio & co. Il nuovo segretario, schierato molto più a sinistra del suo predecessore Renzi, ha subito colto le affinità del provvedimento con gli ideali democratici e sta lasciando campo libero per la sua realizzazione.
E gli altri si indignano
Non è un caso, tra l’altro, che la parte più ostile al provvedimento del decreto dignità sia il vecchio centrodestra “imprenditorialista” di Silvio Berlusconi e la parte del Partito Democratico fedele all’ex segretario Matteo Renzi. Branca letteralmente disprezzata dallo stesso Rodotà.
Dopo aver rivendicato varie volte l’associazione tra Movimento 5 Stelle e l’ex Partito Comunista, lo stesso Berlusconi ha accusato il Movimento di essere “pauperista” e di essere addirittura “peggio dei comunisti”. Senza parlare dei continui attacchi da parte dell’ex Presidente del Consiglio del PD, che fà sì opposizione, ma contro un solo partito e spesso dimentica Salvini.
Detto che la retorica anticomunista è ormai fuori di moda (poteva andar bene negli anni ’90, ma non più nel periodo della Terza Repubblica), le parole professate più volte dal Cavaliere indicano un sentimento che accomuna tutta la classe imprenditoriale: la paura. La paura per un’Italia che, per la prima volta dopo tanto tempo, pensa a dare assistenza a chi davvero ne ha bisogno, il cosiddetto “ceto medio” ed applica misure finalmente sociali, a scapito delle classi più ricche.
Dalla parte “renziana”, invece, vi è un vero e proprio sentimento di sconforto e nostalgia. Nostalgia che attanaglia tutta l’ex classe dirigente del centrosinistra, che osserva con rabbia che bastava davvero poco, per mantenere le promesse e il controllo dell’Italia. Bastava semplicemente pensare al popolo italiano, e non seguire l’onta dei radical chic che hanno completamente venduto gli interessi italiani alle banche europee.
Bastava essere più “sociali” e meno “social”, guardare agli interessi di una popolazione in difficoltà e bisognosa di politiche consone ad essa. Invece, in bocca resta un senso d’amarezza e di frustrazione. Ma, nel contempo, qualcosa si muove. C’è già chi ha cambiato rotta ed ha offerto quantomeno un dialogo alla parte governativa, che non ha escluso la possibilità. Un piccolo passo per il PD, ma un grande passo per la sinistra italiana.
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