22 Ottobre 2022 - 15:45

Emanuele Dabbono si racconta a Zon.it

Emanuele Dabbono si racconta a Zon.it. L'artista confessa: "Buona strada è un disco pieno di luce, molto sfaccettato"

Emanuele Dabbono

Emanuele Dabbono è un cantautore, autore e polistrumentista italiano nato a Genova, e per la precisione a Campomorone, nel 1977.  Scopriamo, insieme, tantissime sfumature della sua persona e della sua anima tramite un’intervista esclusiva di Zon.it organizzata e curata da Filomena Volpe.

Emanuele Dabbono: l’amore per la musica nel tempo e nello spazio

Ciao Emanuele, buongiorno e benvenuto. Come stai?

« Buongiorno a te, Filomena. Non potrei stare meglio in questo periodo perché quando tu esprimi qualcosa di così personale come quello che sta capitando a me con Cerezo, la gente lo riceve come se fosse successo anche a loro. Questo ti fa capire che le canzoni non sono di chi le scrive ma sono davvero di chi le fa proprie. »

Che cosa rappresenta, per te, la musica? Che ruolo ha avuto ed ha, ad oggi, nella tua vita?

« La musica, per me, è qualcosa di salvifico. Io dico sempre che avrei fatto il musicista anche se avessi fatto qualsiasi altro lavoro perché per me non è una questione di immagine o successo, non lo è mai stata. È sempre stata una questione quasi di dipendenza affettiva, cioè ho sempre pensato che la musica avesse per me come una sorta di valore terapeutico. Ho sempre creduto che scrivendo canzoni mie, sarei riuscito ad avere più coscienza di chi ero, di che cosa volevo trasmettere, poi, alle mie figlie, per esempio. Quindi, invece di usare il “bonus psicologo” ho usato il “bonus scrittore e canzoni”. »

Partendo proprio dalla musica, facciamo un tuffo nel passato. Nell’estate 2006 è uscito il singolo “Scritto sulla pelle”. Che emozioni provi nel ricordare questo momento della tua vita? Ripensarci cosa ti suscita?

« Provo molta tenerezza perché ero davvero un ragazzino allo sbaraglio e, di colpo, la canzone iniziò a girare su tutti i network, su tutti i canali televisivi e quindi mi trovai, improvvisamente, ad aprire il concerto di Avril Lavigne, di The Black Eyed Peas, di Jonh Legend…situazioni abbastanza grosse. Lì capii che se volevo davvero durare e che se volevo che le mie canzoni arrivassero alla gente, non dovevo seguire nessun tipo di strada che qualcuno avesse deciso per me tranne la mia. Dovevo decidere io la mia strada e quindi raccontare la mia provincia. Fai conto che io all’inizio, prima di “Scritto sulla pelle”, volevo cantare in inglese. Avevo scritto un sacco di canzoni in inglese senza pubblicarle perché amavo e amo tuttora il cantautorato di Bruce Springsteen, di Bob Dylan, insomma dei grandi autori americani. Però poi mi sono accorto, con un viaggio negli Stati Uniti, che proprio non era il mio mondo. Potevo benissimo sognarlo e amarlo e vederlo dentro ad una pellicola, al cinema, in un film ma non potevo raccontarlo perché il mio mondo era fatto strade di province. Non potevo raccontare cose che non avevo vissuto sulla pelle e quindi “Scritto sulla pelle” è stato il primo passo per cercare di avvicinarmi un po’ a me stesso. Poi, però, ho osato molto di più: sono sceso a raccontare anche cose personali e intime perché ho pensato che fosse l’unico tramite per raggiungere gli altri. »

Da qui si evince che la tua è una scrittura molto molto empatica e che non si fonda su regole generali ma interiori…

« Sì sì, assolutamente. Credo davvero che le canzoni incontrino le persone che devono incontrare. C’è un motivo se qualcuno si affascina ascoltando “La cura” di Battiato e qualcun altro no. Esiste un perché. C’è una formula magica che, ovviamente, noi che scriviamo canzoni non conosciamo altrimenti ci ricorreremo sempre, no? Sempre più spesso attingeremmo da quella per cercare di vedere più stelle in cielo ma non funziona così, però so che le canzoni conoscono molto meglio di noi chi siamo, è come se fossero delle persone e camminano con le proprie gambe una volta pubblicate e vanno nelle vite in cui devono andare. »

Continuando il nostro viaggio nel passato, anche il 2008 segna l’inizio di un altro percorso importante per la tua carriera: la partecipazione ad X Factor e la pubblicazione di “Ci troveranno qui”, il tuo primo lavoro discografico. Com’è nata questa canzone? Di cosa parla?

« Sì, quella canzone ha un sacco di anni. La scrissi prima del 2008, la scrissi nel 2000. Io sono nato e cresciuto a Genova ma, precisamente, in un piccolo paesino chiamato Campomorone e che fatichi a trovare persino sulle cartine. Quindi sono nato veramente in campagna e le mie giornate erano a petto nudo a giocare in un campo polveroso a calcio con gli amici oppure camminate sui sentieri fino ai laghi, a 1500 metri. Per me quella era la mia vita. La mia vita era molto semplice, se vuoi era molto pura. Quando si trattò di scrivere questa canzone ho cercato di convogliare tutte le emozioni che mi hanno accompagnato quando me ne sono andato da quel paese. Io non potevo ancora vivere da solo, avevo 18 anni e quando mio padre andò in pensione mi portò con sé. Non andai molto lontano ,andai a 50 chilometri di distanza dove vivo tuttora, a Varazze. Amo chiamarla la “West Coast ligure”. È sul mare, è un posto meraviglioso eppure a me mancavano quei sentieri, mi mancava quel campo polveroso, mi mancava quel campanile, mi mancavano i miei amici, mi mancavano quelle serate trascorse sulla panchina a decidere dove andare per poi non andare da nessuna parte. L’ho vissuto come un distacco grande. Quel distacco è finito dentro a “Ci troveranno qui” che è diventato, poi, anche una sorta di inno generazionale ed è uno dei brani che viene atteso di più durante i miei concerti. »

Nel 2010 e nel 2013 hai pubblicato, rispettivamente, due libri: “Genova di spalle” e “Musica per lottatori”. Che cosa rappresenta, per te, la parola nel senso più puro del termine?

« Che bella domanda, posso dirtelo? Grazie. Che bella, raramente ti viene fatta una domanda che ti permetta di esprimerti così liberamente. Grazie. Allora, la parola è una scelta, la parola per me è davvero il diritto che dovremmo avere alla cura degli altri. Quando ci parliamo, molto spesso usiamo delle locuzioni che sono state svuotate di significato. Pensa al “Come stai?” che è diventato quasi un “Ciao”, non si aspetta la risposta degli altri, o tutte le parole che utilizziamo spesso nei social. Mi viene da pensare al significato di “condividere” che in realtà significa: “Ti faccio sapere un po’ di affari miei”. Tutto questo, molte volte, avviene anche senza motivo. Una volta condividere significava: “Io mi apro a te, ti racconto una parte intima di me, vediamo se ci entri anche tu. Ti lascio un pezzettino di me, vediamo se mi suona familiare, vediamo se risuoni insieme a me”. La parola ha perso anche un po’ di potere, mi dispiace tantissimo anche perché sì, io sono un musicista ma la cosa che amo di più è scrivere i testi e quindi puoi immaginare con quanta sofferenza e cura, altre volte anche con gioia, le vado a scegliere. Tu pensa agli inglesi e agli americani che hanno “to get” per dire tutto. “Get” vuol dire “prendere”, “correre”, “fare”. Noi che veniamo dal latino abbiamo cinquecentomila piccolissimi dettagli per ogni parola, no? Quindi “afferrare” è diverso da “sfiorare”. Se noi riuscissimo, di nuovo, ad avere quella precisione lì che è nostra, che è storicamente nostra, forse diremmo di più. »

Da ben 8 anni collabori con Tiziano Ferro. Che cosa significa, per te, collaborare con lui a livello lavorativo e personale? Come ti ha cambiato interiormente tutto questo?

« Mi ha cambiato tantissimo perché, sai, quando uno oggi fa l’autore pensa di sapere già tutto. Ho incontrato diversi ragazzi, anche più giovani, che sembravano già “navigati” ma, quando mi sono trovato di fronte Tiziano è stato pazzesco non tanto per il carisma che lui ha e per quello che rappresenta per la musica di oggi, ma perché è riuscito a tirarmi fuori una parte che io nemmeno sospettavo fosse la più importante per me. Considera che, anni fa, i primi dischi che facevo erano molto rock ma lui mi disse: “Guarda che la parte in cui tu sei più forte è la dolcezza. Tu sei una persona dolce quindi ti puoi mettere tutte le giacche di pelle che vuoi, tutte le borchie. Alla gente arriverà questa cosa, c’è una tenerezza in te. Recuperala, raccontami di quello perché quando mi mandi una ballad io leggo e sento delle cose molto potenti e molto personali che altrove, in un sacco di altre persone, non sento[…]”. Sai, è difficile per noi che scriviamo saperci leggere bene. »

Sì, abbiamo sempre bisogno di qualcuno che ci legga, che sappia leggere le nostre inclinazioni…

« Sì, e così è venuto fuori Incanto, magicamente. L’ispirazione iniziale fu la nascita di mia figlia, tenere in mano questa bambina e dire: “Ma questo è un incanto“. L’ospedale era un museo d’arte, sembrava quello. È stato lui a mostrarmi che c’era una via possibile. »

Il 21 ottobre uscirà “Buona strada” che è il tuo nuovo album. Come ti senti a riguardo? Ti andrebbe di parlarmi, liberamente, di questo tuo nuovo lavoro discografico?

« Sì, guarda, è un album pieno di luce. Oggi non c’è tanto tempo per ascoltare i dischi. Le canzoni durano due minuti e mezzo e le persone, giustamente, hanno una vita e non possono mettersi lì un’ora ad ascoltare un disco, io lo capisco molto bene. Però le persone possono viaggiare, guidare o buttarsi in treno o in aereo e quindi avere del tempo che devono ammazzare. Mi piacerebbe che questo disco venisse ascoltato mentre si guarda il panorama perché è un disco pieno di luce, molto sfaccettato. Non ti voglio dire un diamante ma sì, ha una serie di riflessi[…]. È un disco pieno di dettagli e particolari diversi: ci sono canzoni a cappella con la voce, ci sono brani gospel, c’è un brano sudafricano, ci sono brani country, anche. Sì, ti direi che è un disco popolare, nel senso che è fatto per la gente ma non è pensato perché possa piacere a tutti. No è quello il mio interesse, non voglio andare verso quello, non voglio fare la guerra alle classifiche. Però vorrei che, se fra dieci anni qualcuno si avvicinasse a me per sbaglio e dicesse “Ma quello è il ragazzo che ha scritto ‘Il Conforto’ “, trovasse una coerenza e trovasse una specie di corrispondenza. »

Dunque, per te, fare musica significa anche comunicare per immagini affinché, poi, una persona possa ricreare nel proprio mondo delle visioni personali che siano affini ma, nello stesso tempo, diverse a quelle che tu hai voluto condividere, giusto?

« Bravissima, bravissima. Siamo fotografi. Le frasi devono essere polaroid, quindi devono poter essere staccate ma non per un discorso di educazione cinica. In realtà meno spieghiamo e più comunichiamo. Conosci Sebastião Salgado? Hanno fatto un documentario su di lui che si chiama Il sale della terra” che è stupendo. Ecco, lui fotografava, in bianco e nero, i minatori brasiliani mentre lavoravano e sembrava glorificare il lavoro quindi, in un momento di fatica quelle persone sembravano degli dei perché era stato in grado di prendere un momento di vita quotidiana assolutamente trascurabile e con la luce giusta e , sicuramente con la tecnica giusta perché, come nelle canzoni, l’artigianato, il mestiere serve però era riuscito a sublimarle, a rendere un lavoro, un momento quotidiano una cosa incredibile. Oppure penso a Van Gogh, ad esempio. C’è quel dipinto bellissimo di cui non ricordo il nome: viene raffigurata una bambina che corre ad abbracciare il papà che torna dai campi dopo aver lavorato, dopo aver passato la giornata a lavorare nei campi. È un dipinto molto colorato, lui è tutto sporco e la bambina gli corre incontro. Quello è una foto, non è un quadro, non è un dipinto, è una canzone. »

Che cosa rappresenta per te Cerezo da un punto di vista emotivo?

« A questa canzone vorrò bene per sempre. Durerà più di me, credo. L’hanno detto in tanti, un sacco di persone mi hanno detto che questa cosa durerà. Sai, molte volte quando uno fa le canzoni, lo fa con un intento preciso temporale: “Faccio il brano per l’estate”; “Faccio la canzone per Sanremo”. Il mio è: “Faccio la canzone della mia vita”. E, quindi, è un po’ più complessa, un po’ più lunga la strada che questo brano percorrerà, non credo si esaurirà nel breve termine […]. Mi sopravvivrà, ne sono certo. »

Per me è stato un piacere ed un onore ascoltarti. Io e l’intera redazione di Zon.it ti facciamo tantissimi auguri per l’uscita del tuo nuovo album e per tutto. Io ti seguivo ad X Factor, guardavo questo programma insieme a mia nonna ed eri il mio preferito.

« Davvero? Grazie, ti ringrazio tanto Filomena. »