14 Settembre 2015 - 11:00

Il Cilento di Noi credevamo, il film sul Risorgimento

noi credevamo

Il Cilento, scenografia storica del Risorgimento. A ZONzo ripercorre le tappe del film Noi credevamo, quando l’immagine filmica incontra il paesaggio reale degli eventi 

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Dal film di Mario Martone (celebre per Il giovane favoloso), Noi credevamo del 2010, il Cilento compare in una successione di affreschi reali e vivi, in quanto rivissuti, per ripercorrere sentieri, corsi d’acqua e colline di straordinaria bellezza quando, da centro turistico, diventa set cinematografico.

Il Cilento di Noi Credevamo

Il Cilento di Noi Credevamo

Ogni angolazione dipinge un’unicità del Cilento, che lo fa emergere dal film, immortalandolo. Gli attori, spesso, possono diventare presenze secondarie rispetto al valore comunicativo che raccontano le pietre, le salite e i colori, il mare e il dialetto, le tradizioni e le fisionomie di un luogo archetipo.

Noi credevamo parla del Risorgimento partendo dai moti rivoluzionari del Cilento, attraverso le vicende di: Salvatore (Luigi Pisani), con spirito patriota, Domenico (Luigi Lo Cascio), che crede nell’amicizia e Angelo (Valerio Binasco), votato all’azione violenta.

Il regista Martone sceglie di tornare nei luoghi in cui ha preso forma il senso di appartenenza ad una nazione, e non più solo ad un contesto ristretto, sollevandosi dalla schiavitù e dalla povertà.

Il sentimento nostalgico presente già nel titolo del film, racchiude una presa di coscienza che fa del cilentano un emigrante in conflitto con la sua terra di origine, dove alimenta continuamente il senso di ribellione, ma che si smorza in ripetuti atti di fuga dal luogo in cui è nato per sfogare il talento e la voglia di cambiamento in contesti nuovi e favorevoli. Il suo ritorno nel Cilento è una riconferma di ciò che si è assorbito negli anni, metabolizzato quasi, diventando cicatrice.

Girato tra Roscigno Vecchia (leggi lo speciale di A ZONzo cliccando QUI), Pollica, Castellabate, Camerota (leggi lo speciale di A ZONzo cliccando QUI) e Palinuro, Noi credevamo compie anche un’operazione di recupero della memoria storica e culturale del territorio, un archivio dunque, in cui rivedere situazioni all’interno di cornici autentiche, fruirne così le caratteristiche estetiche in concomitanza con il significato storico che si portano con sé.

Pollica – Il nome deriva dal greco e significa “molte case“, un paese grazioso all’ombra del castello. Dominata dai Normanni e dagli Angioini, in particolare è stato sotto il controllo della baronia di Sanseverino e della famiglia D’Alment, successivamente venduta ai Capano. Il feudo fu poi ereditato e mantenuto dai Liguoro fino all’evasione della feudalità. A Pollica troviamo il castello dei Principi Capano, il convento dedicato alla Madonna delle Grazie e la chiesa di San Nicola di Bari.

Castellabate – Presenta una storia simile a quella di Pollica, dominata dai Normanni e dagli Angioini, vide il regno di Carlo I d’Angiò. La stessa famiglia Sanseverino, aveva esteso il feudo anche a Castellabate, fino alla ribellione di Fernando Sanseverino, portando alla successione di diversi feudatari. Il paese fu interessato dalla Repubblica Napoletana del 1799, in cui Luisa Granito ebbe un ruolo politico attivo. La famiglia Granito possedette il feudo fino all’eversione della feudalità avvenuta nel 1806. Tra gli edifici storici si possono visitare i palazzi Belmonte e Matarazzo, la chiesa di San Giovanni e la Basilica.

Tra i luoghi più suggestivi presenti nel film c’è Palinuro, vista attraverso il mare, il fiume, la vegetazione e le rocce. 

arco naturale noi credevamo L’Arco Naturale, nei pressi in cui si svolgono le scene degli sbarchi (diversamente invece gli imbarchi sono ripresi dal mare di Acciaroli, così come la lotta a colpi di armi da fuoco), è tra le caratteristiche più preziose del Cilento. Un arco nasce “spontaneo” nel mare cristallino, vicino alla foce del fiume Mingardo.

La spiaggia dell’Arco Naturale di Palinuro è stata scelta come location in altri film, tra cui Gli argonauti 2, Ercole alla conquista di Atlantide e Scontro di Titan. 

In Noi credevamo altri luoghi simbolo di Palinuro: lo strapiombo della “Gola del Diavolo“, su cui si erge il borgo medievale di San Severino, è mostrato nella sua maestosa fascinazione e mistero, dove il fiume Mingardo scorre più lento. Man mano i cavalli galoppano attraversando quasi interamente il fiume, passando per la “Mingardina“, riconoscibile da ogni buon cilentano per la presenza costante del bestiame.

Infine, i cavalli portano Domenico e Saverio (Michele Riondino) a ripararsi sulla zona alta di Palinuro, incontrando la ginestra, colta nel suo periodo migliore, un altro simbolo legato allo scenario cilentano. Tipico fiore lucano, riempie anche le montagne rocciose e di derivazione vulcanica di Palinuro e Camerota.

In questa scena, quasi alla fine del lungo percorso dei ribelli, ormai invecchiati e sfiniti, un’immagine diventa metafora del discorso finale pronunciato, appassionatamente, da Luigi Lo Cascio in Parlamento.

Sulle conseguenze del Risorgimento nel Cilento, e sulla reale realizzazione dell’Unità d’Italia, Mario Martone interpreta i luoghi rivisitati con una constatazione storica audace, profonda e contemporanea.

noi credevamo

Immagine tratta dal film Noi credevamo

Il fallimento dell’ideologia risorgimentale, il futuro senza futuro del Sud Italia e in particolare del Cilento, la stasi e l’illegalità, la partenza sempre rimandata, il cambiamento sempre bloccato sono iscritti nella composizione architettonica in cui i due compagni si raccontano cos’è l’Italia. L’immagine dell’abusivismo in mezzo alla natura, nel bel paesaggio rupestre del Cilento, è la consapevolezza di un “mondo” sognato e mai costruito. Abbandono, povertà, regressione. La bellezza non si contempla, non si valorizza, ma si deturpa e si svende. 

Un legame al proprio territorio malato, che merita un’educazione rivoluzionaria che non arriverà mai. E allora, tutte le volte che si parte per emanciparsi dal Cilento, si sta continuando ad abbandonarlo, ad impoverirlo e a regredirlo. Incapacità, anche, che caratterizza la storica evoluzione della comunità cilentana, che vive di ideali per cui lottare, ma viene continuamente ingannata dalla politica, dal clientelismo e dalla menzogna.

Domenico, il più fedele al suo obiettivo tra i tre, ormai invecchiato, conclude: “La lotta si è conclusa in un fallimento e vorrei trovare il bandolo della matassa, per capire se, un’errata interpretazione delle idee che ho sostenuto, sia responsabile o non di quel che è successo. Italia di oggi…fredda, superba, assassina! Entrato in Parlamento ho capito che non lo saprò mai più“.

Eravamo tanti, eravamo insieme…noi la lotta dovevamo cominciarla quando uscimmo dal carcere…noi…dolce parola…noi credevamo“.

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