12 Gennaio 2018 - 19:54

“La linea verticale”, la serie tv Rai dall’autore di Boris: recensione 

La recensione de “La linea verticale”, la nuova serie tv in onda su Rai 3 dal 13 gennaio (e già disponibile su Raiplay), diretta da Mattia Torre, autore della serie cult “Boris”

Prenderà il via a partire da stasera su Rai 3 la nuova serie tv “La linea verticale“, per la regia di Mattia Torre e con protagonista Valerio Mastandrea.

La trama

Luigi (interpretato da Valerio Mastandrea) ha cinquant’anni, una moglie (Greta Scarano) all’ottavo mese di gravidanza, una figlia. Un giorno scopre di avere una massa tumorale al fegato, così viene subito ricoverato per poter iniziare la sua lotta contro la malattia.

Dalla realtà allo schermo

Dopo il successo della serie tv Boris, Mattia Torre torna sul piccolo schermo con La linea verticale, serie tv in otto puntate da circa venticinque minuti l’una. Date le premesse, non ci si potrebbe che aspettare un’altra serie Rai in stile Braccialetti Rossi, o, considerando il target di Wildside, qualcosa simile a Scrubs. Tuttavia, è bene affermare subito che il medical di Torre è tutto fuorché un medical. Perché sì, l’ospedale è sempre presente, non si esce mai (tranne per i flashback di Luigi), ma sin da subito si capisce che i medici non sono i protagonisti, bensì lo sfondo.

Ciò che importa, infatti, è come i pazienti vivono il ricovero, cosa provano, cosa imparano. D’altronde, avendo affrontato lo stesso percorso sulla sua pelle, chi più di Torre può raccontarlo con veridicità?

Pensieri in sketch

È così che nel giro di un paio di minuti si viene catapultati nella mente di Luigi, costretto a bloccare la propria vita per una minaccia che non riesce a percepire, estranea come il suo compagno di stanza Amed (Babak Karimi). È così che Luigi ci mostra l’ambito ospedaliero e l’esperienza del ricovero, articolata in sketch continui, senza tregua, come il flusso di coscienza di chi poggia la testa sul cuscino senza riuscire a dormire.

Poco spazio per le lacrime, molto asservito al nonsense (in alcuni casi anche troppo) di chi non capisce cosa stia succedendo. Di chi si ritrova ad essere circondato da altri “ariosteschi guerrieri” e a ricercare aiuto da medici che non sanno mai cosa rispondere e che sfuggono di fronte ad una malattia che non ha un vero ed unico perché.

Il ritratto dell’Italia

Come già anticipato, Torre non vuol portare in scena un medical. Difatti, i pensieri di Luigi, più che di malattia, parlano, attraverso vari punti di vista, dell’Italia. Lo fanno attraverso la nostra passione-ossessione per il cibo, analizzando la scala gerarchica lavorativa, ironizzando sulla visione degli immigrati e sul ruolo consolatorio della religione. Torre non risparmia nessuno, criticando con illusoria leggerezza.

Un viaggio trascendentale

In un contesto dominato da personaggi senza un vero posto nel mondo, tra alcuni che vivono la routine meccanicamente facendo a gara a chi torna prima a casa ed altri che si sono accorti troppo tardi di voler essere un’altra persona (esempio lampante è quello dell’aspirante medico interpretato da Giorgio Tirabassi), chi riesce a trovare un senso alla propria vita viene visto come una figura mitologica. In questo caso, l’unico ad esserci riuscito è il famoso dottor Zamagna (Elia Shilton). Innamorato della medicina da sempre, opera ininterrottamente tutti i pazienti del reparto. Egli diviene, per Luigi, una “guida fantasma”, un vero e proprio Virgilio per un Dante in cerca della via della guarigione, sia fisica che mentale.

Perché sì, la malattia non è mai una cosa positiva, ma forse, ci dimostra Torre, è giusto vederla anche come il modo più estremo e diretto per rivalutare in maniera operosa i nostri giorni e cominciare a vivere la vita restando “in verticale”. 

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