11 Maggio 2015 - 13:18

Reazioni avverse agli alimenti: l’importanza della terminologia

reazioni avverse agli alimenti

Quello delle reazioni avverse agli alimenti  è un argomento di frequente trattazione, non solo nelle riviste scientifiche ma, oramai, anche nei più noti settimanali di attualità

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Continua fonte di dibattiti tanto nei convegni scientifici internazionali quanto nelle riunioni di condominio, le cosiddette intolleranze alimentari (termine forse alla maggior parte di voi più familiare) stanno invadendo la nostra vita, ne abbiamo tutti paura, a tal punto che ognuno di noi è convinto di soffrirne e punta il dito contro almeno un alimento. Ma è corretto parlare sempre e solo di intolleranze alimentari?

L’aggettivo intollerante ed il sostantivo intolleranza fino a poco tempo fa non definivano condizioni biomediche. Essi infatti nascono come termini umanistici, tanto è vero che nei vecchi dizionari tali termini venivano utilizzati soltanto per esprimere dei tratti caratteriali, come ostilità, pregiudizio, impazienza, incapacità ad accettare opinioni diverse dalla propria, in ambito sociale, politico o religioso. Solo recentemente sono comparsi riferimenti alle intolleranze alimentari ed addirittura  alle intolleranze a farmaci (argomento di futura trattazione).

Già nel 2001, l’Accademia Europea di Allergologia e Immunologia Clinica ha pubblicato, sotto forma di Position Paper, un documento (“EAACI Position paper – A revised nomenclature for allergy”. Rivista Allergy, 2001: 56: 813–824) con cui ha introdotto il termine Food Hypersensitivity (ipersensibilità ad alimenti), dove per condizione di ipersensibilità si intende lo sviluppo di segni o sintomi, riproducibili, conseguenti all’esposizione verso un determinato stimolo (ad esempio  un farmaco o  un alimento), “somministrato” a dosi normalmente tollerate dalla maggioranza degli individui della popolazione generale ( i cosiddetti “soggetti normali”).

Ad esempio, potremmo dire che la maggior parte di noi assume ogni giorno 150ml di latte senza sviluppare disturbi quali il dolore addominale o la diarrea, mentre una piccola quota della popolazione sviluppa tali reazioni avverse con appena 10 ml di latte, e potremo definire queste persone ipersensibili al latte.

Nello stesso documento veniva fatta una distinzione tra le ipersensibilità immunomediate e le ipersensibilità non immunomediate. Le prime prevedono una attivazione del sistema immunitario da parte di un alimento, a cui consegue una risposta che si traduce in un evento clinicamente manifesto(diarrea, orticaria, ecc.). Il secondo tipo di ipersensibilità, quella non immunomediata, comprende tutte quelle manifestazioni (a volte del tutto simili alle prime) per le quali non sono dimostrabili meccanismi immunlogici, come l’effetto osmotico del lattosio non digerito esercitato nel colon che determina la diarrea.

La finalità dei tale position paper del 2001 non era quella di volere rivedere la terminologia di queste condizioni, argomento che quindi a suo tempo è stato trascurato, proprio in un’epoca in cui erano sbarcate in Europa, dall’altro versante dell’Atlantico, le cosiddette intolleranze alimentari, intese non nel senso scientifico galileiano, considerato ‘’limitativo’’, ma in quello più ampio ad esso attribuito dalla potente lobby della medicina ecologista statunitense.

Questo  non sembrava un “problema culturale” degno di nota e la stesura del documento di cui sopra potrebbe apparire come l’espressione dell’essenza della cultura mitteleuropea che non mira a far prevalere il proprio pensiero su quello debole di altri ma soltanto ad esprimere la forza assoluta del proprio pensiero.

Fatto sta che dopo oltre 10 anni, sebbene nella classificazione del 2001 non compariva il termine intolleranza, oggi il sostantivo “intolleranza”, seguito dall’aggettivazione “alimentare”, non solo è  diventato gergo comune nella popolazione ma è ancora frequentemente usato dai medici in generale e persino dagli allergologi e dagli immunologi clinici che, invece, dovrebbero essere i depositari naturali dell’appropriata nomenclatura nonché gli artefici della sua diffusione tra gli altri medici e nella popolazione generale.

Essendo oggi il web lo specchio della società e del tempo che viviamo, se provate a consultare un motore di ricerca come Google® ricercando le parole chiave “allergia alimentare” e “intolleranza alimentare”, vedrete che il numero di risultati che avrete per le due parole chiave sarà pressoché sovrapponibile, se non addirittura sbilanciato a favore della seconda. Stesso risultato se usate le parole chiave in inglese “food allergy” e “food intolerance”.

Andando invece sulla banca dati PubMed, il sito scientifico biomedico più noto, la situazione per fortuna migliora, ossia le key words “Food Allergy” e “Food Hypersensitivity” sono le più diffuse (con oltre 16000 voci bibliografiche), ma al tempo stesso noterete una persistente indulgenza verso il termine “food intolerance” (con oltre 4000 voci bibliografiche).

Questo cosa vuol dire? Vuol dire che queste indulgenze e resistenze degli addetti ai lavori vengono poi enfatizzate al di fuori del mondo scientifico. Infatti, come vengono intesi comunemente dalla popolazione generale i termini “allergia” ed “intolleranza”?

Spesso le persone associano il concetto di allergia al concetto di anafilassi, quindi ad una condizione che mette in pericolo la vita, cioè associano l’allergia alla morte. L’“intolleranza’’ invece, viene avvertita come una condizione fastidiosa che crea una serie di disturbi ma che comunque si associa ad una condizione di “sopravvivenza”.

Di fronte a questa logica, se voi foste dei pazienti costretti a scegliere tra  allergia e intolleranza alimentare, di cosa vi augurereste di soffrire? E quindi cosa andreste a ricercare? È ovvio che scegliereste le intolleranze!

Questi falsi ma radicati sillogismi vengono fortificati dalla cattiva pratica allergologica difensiva, che abitualmente si limita ad indagare esclusivamente l’eziologia alimentare di reazioni acute allergiche minacciose come le orticarie e le anafilassi, per cui quando questi epifenomeni vengono a mancare, il povero paziente viene bistrattato ed abbandonato a se stesso, non si cercano altre cause che potrebbero spiegare quel malessere da cui è affetto, ed egli inevitabilmente si sottoporrà ad uno o più dei già noti test per le intolleranze alimentari presso la propria farmacia di fiducia.

Spesso l’afflizione del paziente e del suo medico di medicina generale è tale che si va a ricercare una risposta a quel quotidiano malessere fisico e psichico direttamente da un allergologo, affinché questi pratichi urgentemente i test per le intolleranze alimentari. Ebbene è così che sempre più spesso vengono chiamati i test allergometrici cutanei (universalmente noti come skin prick tests), ossia le indagini eseguite in vivo (direttamente sul paziente) che evidenzia uno di quei meccanismi sopra citati di attivazione del sistema immunitario nei confronti di uno o più alimenti, le cosiddette reazioni avverse IgE-mediate ad alimenti.

Tutte queste considerazioni, anche se ufficialmente inespresse, sono state probabilmente le stesse che hanno indotto più recentemente (dicembre 2010) i maggiori esperti statunitensi di allergia alimentare, proprio gli inventori del termine “intolleranza alimentare”, a rivisitare la terminologia e ad incasellare ufficialmente tale termine nell’ambito delle reazioni avverse (o ipersensibilità) non-immunomediate ad alimenti.

reazioni avverse agli alimenti

Reazioni avverse agli alimenti

Nello schema che vedete illustrato si ricalca quanto già proposto da noi europei dieci anni prima. Unico motivo di distinzione è quel cappello “reazioni avverse ad alimenti” che è del tutto sovrapponibile a quello della classificazione precedente (Food Hypersensitivity, Ipersensibilità ad alimenti). Nella parte bassa dello schema, vedete i vari sotto-raggruppamenti, che vi saranno brevemente  commentati.

REAZIONI IgE-MEDIATE. Queste comprendono varie manifestazioni ad evoluzione clinica rapida, di tipo cutaneo, gastrointestinale, respiratorio e cardiocircolatorio, che vanno dalla sindrome orale allergica fino alla pericolosa anafilassi. Tali manifestazioni sono l’espressione della immediata liberazione di mediatori come istamina e triptasi, da parte di cellule quali mastociti e basofili, per mezzo del legame delle immunoglobuline E, espresse sulla loro superficie, con proteine alimentari.

REAZIONI Non-IgE MEDIATE. Rientrano in questo gruppo le celiachia e le enteropatie indotte da proteine alimentari. Tali  condizioni si presentano clinicamente in maniera simile (malassorbimento, diarrea, perdita di peso) e differiscono principalmente per l’età di esordio (entro i 3 anni di età per le seconde). La celiachia esprime una forma di ipersensibilità al glutine, una proteina che si forma in seguito ad idratazione ed impasto della farina di grano (ma anche di segale, farro, kamut, orzo), derivata dall’unione di altre due proteine, la gliadina e la glutenina, la quale attiva in maniera anomala il sistema immunitario che risponde “rifiutando” il glutine e danneggiando quindi l’intestino.

FORME MISTE IgE E NON-IgE MEDIATE. Esprimono quadri clinici di vere e proprie malattie a lungo decorso, come la esofagite o la gastroenterite eosinofila, a prognosi generalmente favorevole quoad vitam, certamente avviate da reazioni mediate da anticorpi IgE ma, in molti casi, sostenute poi da processi più complessi di immunoflogosi che coinvolgono cellule del sangue note come eosinofili le quali vanno ad infiltrare i tessuti nelle sedi di esposizione all’antigene (alimento).

REAZIONI CELLULO-MEDIATE. Sono reazioni in cui le cellule protagoniste sono i linfociti T,  i quali riconoscono direttamente un bersaglio ed attivano una risposta, in modo autonomo oppure con la collaborazione di altre cellule effettrici come gli eosinofili o i macrofagi.  Anche qui possiamo avere manifestazioni variabili che vanno dai disturbi gastrointestinali agli eczemi e/o alla febbre, i quali possono svilupparsi per ingestione o anche manipolazione di alimenti contenenti metalli quali nichel, cobalto, cromo o fragranze come il balsamo del Perù.

REAZIONI AVVERSE NON IMMUNOMEDIATE. Nello schema classificativo sono già indicate alcune  di queste condizioni. Si possono distinguere: deficit enzimatici con conseguenti alterazioni metaboliche (come ad esempio il deficit di lattasi, enzima che consente la degradazione del lattosio); effetti di costituenti alimentari ad azione farmacologica (come i tremori da caffeina o la cefalea da tiramina contenuta nei formaggi fermentati); effetti tossici conseguenti all’accumulo di sostanze in alimenti avariati (istamina, ciguatossina, tossine batteriche). Esistono inoltre un gruppo eterogeneo di reazioni avverse non immunomediate che riconoscono cause e meccanismi diversi dei precedenti, anzi, per alcuni fenomeni ancora non è stata definito un preciso meccanismo biologico, come le reazioni avverse ad alimenti contenenti additivi quali solfiti, sodio glutammato, tartrazina. Sono descritte anche condizioni quali la rinite gustatoria e la sindrome auricolo-temporale (rinorrea e starnutazione o arrossamento del volto per attivazione di riflessi neurogenici). Non dobbiamo dimenticare che alcuni alimenti possono esacerbare le manifestazioni di patologie primitive come gastriti da Helicobacter Pylori, malattie infiammatorie croniche intestinali (ed esempio la malattia di Crohn), l’insufficienza pancreatica e l’insufficienza epatica e che molte reazioni possono anche essere catalogate come psicosomatiche, cioè espressione di disturbi psicologici.

Queste ultime condizioni patologiche elencate devono essere attentamente ricercate dal medico prima di abbandonare il paziente ai propri problemi ed a puntare il dito contro quello che rappresenta uno dei fondamentali piaceri della vita… il buon cibo.

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