Sacco, il borgo del Cilento con un sacco di tesori
Da Sacco nuova a Sacco vecchia fino alle Gole del Sammaro, gli Outdoorini scoprono l’arte, la storia e i paesaggi dell’ultimo prezioso borgo del Cilento
Il monte Motola alle sue spalle, le gole del fiume Sammaro sotto i suoi piedi, la sella del Corticato e il Passo della Sentinella i suoi corridoi verso il vallo di Diano. Le origini sono medievali e le tradizioni autenticamente contadine. È Sacco, il “balcone degli Alburni”, una manata di case con circa 500 autoctoni, che si bea tra la natura poliedrica del Cilento, pezzi d’arte nascosti nelle viuzze del centro storico e leggende tramandate nel tempo che risuonano ancora tra le sue antiche mura.
“Comme si’ pulita” sentiamo dire con voce di gioia – mentre iniziamo il nostro giro dalla piazza del centro – da una vecchia signora arzilla, avvolta nel suo grembiule, le mani tra le rughe e gli occhi acuti e attenti verso tutta questa ciurma o, meglio dire, mandria. Siamo in tanti oggi, venuti a scoprire gli intrecci tra arte, storia e natura di questo luogo, piccolo per territorio, ma grande per il tesoro che contiene.
Siamo tanti, più dei vecchi abitanti che in tutta la mattina scorgiamo dietro le porte del piano terra e dai balconi consumati e coperti bene, mentre ci seguono incuriositi aggirarci tra i vicoli già fumosi, gli antichi portali in pietra, gli stemmi nobiliari e i palazzotti gentilizi, chiedendoci cosa siamo venuti a fare, qui in questo “confino”.
È la candida inconsapevolezza di chi non sa di possedere una bellezza, il contadino che non conosce fino in fondo la bontà del suo prodotto, quel “formaggio che si mangia con le pere”, la distrazione di quegli occhi abituati ad avere lo straordinario a portata di sguardo e che non conosce confronto.
“Signora bella, – qualcuno azzarda – cosa cucinate di buono in questa domenica d’autunno?”
“Mangio pane, scorza e muddica” risponde prontamente la vecchina sorridendo, mentre ripiega lo strofinaccio liso e ci tiene segreto la sua pentola sul fuoco, che scuppetta, da ore, da prima che arrivasse tutta chesta gente.
Ci attardiamo in ogni scorcio e sottopasso della nuova Sacco, che le storie di uomini e donne hanno tenuto viva e passiamo al vaglio ogni tesoro che il tempo qui ha lasciato e l’isolamento ha custodito.
Presenti un tempo nel paese quattro porte, di cui restano ricordi e qualche pietra, vediamo oggi la sola rimasta, la porta del Lavinaio che la tradizione dice essere stata parte del vecchio convento, un ingresso secondario che serviva al volgo per accedere alla campagna, oggi come ieri.
Noi vi passiamo, per poi trovarci sparpagliati e persi nella struttura a rete del paese, dove tutti i vicoli alla fine portano in piazza, al cospetto dell’imponente Chiesa di San Silvestro, dedicata al patrono del borgo. È la chiesa più grande di tutta la diocesi di Vallo della Lucania, dalle immense volte architettoniche e i possenti archi, barocca nelle sue decorazioni interne e appariscente fin dalla prima occhiata grazie alla cupola di tipo michelangiolesco.
Scopriamo che le navate laterali contengono cappelle private, un pregiato coro ligneo intarsiato all’interno e la statua della Madonna degli Angeli, la “Signora del miracolo” che nel 1656, dopo la comparsa di un lividore sulla mano simile a un bubbone, fece cessare l’epidemia di peste a Sacco che intanto flagellava il meridione in quel periodo. Il miracolo accadde, il contagio cessò e da allora la fede si rinnova ogni anno il 2 agosto tra fede e solennità.
Ma è il campanile a suscitare la nostra attenzione. Situato un tempo a lato della vecchia chiesa, fu allungato con la costruzione di quella attuale fino a divenire ciò che ci appare, un pinnacolo che si erge sobrio verso l’alto, che fungeva in passato da vecchia torre di dominio su tutta la vallata. Gli spigoli della struttura sono orientati verso i punti cardinali fondamentali, com’erano soliti costruire i Longobardi.
Nelle mura esterne della chiesa, dietro la piazza, scorgiamo incastonate tre statuette in terracotta, chiamate popolarmente ‘li muocci’, il complesso dei sotto santi che raffigurano San Nicola, San Sebastiano e Sant’Elia.
Non è semplice portare tutto questo gruppo di Outdoorini, chiassoso e turbolento, all’interno di un luogo più degli altri abituato al silenzio della sacralità e a quello timido dei soliti visitatori. Ma la “bona crianza apre tutt’ le pporte” e, a turno, superiamo anche le ultime resistenze di un cappellano non troppo contento della nostra vivacità.
Eppure la vivacità Sacco l’ha conosciuta da mille anni prima di Cristo, quando un piccolo nucleo abitativo si è insediato nei pressi del sito archeologico di Sacco vecchia dando il via alla prima comunità dei saccatari.
Lasciamo allora la nostra passeggiata d’arte nel paese nuovo per andare a scoprire le rovine di un vecchio castello che avrà da raccontarci una storia. Attraversiamo un selciato in terra battuta e poi in pietra, mentre dall’alto ammiriamo tutta la zona archeologica del monte Pruno nella terra di Roscigno a noi di fronte e vicino il temibile ponte dei suicidi, che affaccia però su un paradiso naturale.
La nostra passeggiata diventa adesso di natura, tra i paesaggi bucolici della Sella del Corticato fino alle propaggine di monte Motola, qui a 635 metri di altezza, di fronte alla vecchia Sacco, i cui resti giacciono su una rupe che si erge a strapiombo sulla valle del fiume Sammaro.
Giacciono i resti della chiesta di san Nicola, delle mura merlate che proteggevano un tempo il maniero e quelli del vasto cortile da cui si accedeva al castello, mentre rumoreggia la leggenda di Saccia, la “duchessa prigioniera”, che dà nuova vita alle rovine di questo vecchio castello.
Moglie del duca Zottone di Benevento che intorno al 600 aveva capitanato la penetrazione longobarda a Sud, Saccia s’innamora di un giovane pastore, in assenza del marito impegnato in guerra.
Quassù è bellissimo… e il paesaggio che ci cinge è troppo intimo per non cadere nelle tentazioni dell’amore. Così Saccia si abbandona ai suoi richiami ma, scoperta, viene accusata di adulterio e rinchiusa nel castello, dove morirà viva tra le fiamme dell’incendio che metterà fine alla vita del vecchio borgo.
Vittima ante litteram di femminicidio, vivrà in eterno nelle mura del borgo nuovo, costruito più a valle e denominato Sacco, in suo ricordo e per il suo riscatto.
Ora, sappiamo che questa è solo una leggenda, anche se ebbe eco in tutto il regno, e che il sito di Sacco vecchia – dal latino “saccus”, via senza uscita – abitato da Longobardi e monaci basiliani a partire dal VI sec d.C., fu abbandonato a causa di una pestilenza o di eventi belligeranti che portò i suoi abitanti a costruire la nuova Sacco in un luogo più accessibile ai piedi del monte Motola.
Eppure, ci piace immaginare storie segrete racchiuse in questi massicci intorno, immobili ed eterni, che assistono da sempre alla caducità del tempo degli uomini che si fa continuamente storia e, sotto i nostri passi, a ogni escursione si racconta.
Ma non è finita. Dopo il carico d’ossigeno dall’alto di questa rupe, ci aspetta la discesa a valle verso la sorgente carsica del Sammaro, la più abbondante di acqua nel Sud Italia. C’inoltriamo scivoloni tra le pareti umide delle Gole e, accovacciati sui grandi massi bianchi, osserviamo le chiare fresche e dolci acque del fiume venire fuori, quasi improvvise, dal “Forno”, una grotta che libera l’acqua dopo tre chilometri di fuga nella gola.
Anche qui la storia dei reperti rinvenuti ci racconta di una comunità di pastori che abitarono queste sponde durante l’età del bronzo. L’acqua del Sammaro ci sussurra che qui s’insediarono i primi nuclei abitativi umani che, dalla preistoria e attraverso i millenni, hanno portato la loro discendenza nella Sacco che abbiamo conosciuto oggi.
E anche oggi, in un Cilento che ci ha svelato attraverso un altro dei suoi borghi i tesori frutto della storia e della natura, c’ammu allattatu.
“[…] Non entrano nei fatti vostri; vi rivolgono di rado la parola, ma non perché timidi o privi d’eloquenza, ma perché assenti in propri pensieri. Ma basta che esprimiate un desiderio, ed eccoli farsi a pezzi per accontentarvi: lo fanno per inclinazione a farsi benvolere, e mi pare ormai civiltà assai rara. Terra ospitale, terra d’asilo! “
Giuseppe Ungaretti, quando conobbe il popolo cilentano
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