28 Novembre 2019 - 08:00

The Irishman: il testamento a firma di Martin Scorsese

The Irishman

Con The Irishman, Martin Scorsese regala una sorta di “summa cum laude” di tutto ciò che è il suo cinema. Un masterpiece che strappa anche una lacrima

Qualcuno direbbe che siamo ai saluti. Sappiamo tutti che non è così, e tutti i cinefili sperano che in realtà questo sia solamente un arrivederci. Non è facile parlare a cuor leggero di una delle persone più influenti (artisticamente parlando) degli ultimi 50 anni. Ma sicuramente si proverà ad essere quanto più imparziali possibile. Si sapeva già, d’altronde, che parlare di Martin Scorsese e soprattutto di The Irishman, sua nuova creatura, non sarebbe stato affatto un gioco da ragazzi.

Arrivato alla soglia degli 80 anni, il Maestro della Settima Arte (perché solo così si può etichettare, come IL Maestro) riesce a regalare ancora emozioni come fosse la prima volta. The Irishman è un film a suo modo romantico. Un vero e proprio excursus autobiografico di un regista che, per la prima volta dopo tantissimo tempo, si mette a nudo davanti al suo pubblico e gli regala tutta la sua essenza. E, paradosso dei paradossi, lo fa attraverso Netflix, il nuovo che avanza. Sì, proprio lui, da sempre e per sempre innamorato del vecchio cinema. Affezionato alla pellicola, al widescreen.

Non per questo, però, si può parlare di un film completamente nuovo. No, la storia dell’irlandese Frank Sheehan è una storia già vista. Già raccontata a più riprese da colui che fin da La Grande Rasatura, suo primo cortometraggio, ha stupito l’intera platea. A cambiare, però, è il modo di raccontare. Un modo quasi disilluso, commovente, che lascia allo spettatore un senso cupo di nostalgia per i tempi andati e per un futuro che non sarà mai uguale al passato.

Dunque, immergiamoci a fondo in questa vera e propria epicagangsteriana” firmata dal regista italo-americano, che ci auguriamo non sia l’ultima.

C’era una volta un irlandese

The Irishman, come lo stesso titolo dice, è la storia di un irlandese. Il protagonista in questione è Frank Sheeran (un perfetto Robert De Niro). Ex trasportatore e veterano della Seconda Guerra Mondiale, diventa un sicario al soldo della Mafia italo-americana, cominciando a “dipingere case” col sangue. A capo della famiglia criminale che lo protegge c’è Russell Bufalino (un sempre sontuoso Joe Pesci), che diventerà quasi un padre per lui.

Quest’ultimo lo metterà in contatto con il sindacalista Jimmy Hoffa (uno stratosferico Al Pacino), preso di mira dal presidente Robert Kennedy per il suo coinvolgimento con la Mafia e i prestiti garantiti loro per la costruzione di Las Vegas. Entrambi daranno vita ad un rapporto che illuminerà tutti gli episodi più ambigui e ancora irrisolti della storia americana, dall’intrigo della Baia Dei Porci all’omicidio di Robert Kennedy.

Ma non c’è spazio solo per gli intrighi, perché tutte queste azioni porteranno conseguenze all’interno delle rispettive famiglie di Frank e Jimmy, che cercheranno di proteggere e schermare da ogni orrore. Ma, si sa, storie del genere quasi mai vanno a finire bene.

Nostalgia canaglia (ma sempre ben accetta)

Chiunque si trovi a contatto con The Irishman, alla fine della sua visione non potrà esimersi dal versare almeno una lacrimuccia. Scorsese ci regala un vero e proprio “testamento” da lasciare ai posteri, quasi come avesse prodotto la sua opera finale, il suo masterpiece, la sua “pietra tombale”. E per farlo ricorre a tutto ciò che gli è più caro.

A partire dal cast nostalgico, formato dai “vecchi bravi ragazzi” Robert De Niro e Joe Pesci e dagli stoici Al Pacino e Harvey Keitel, fino ad arrivare alle nuove leve, ovvero Bobby Cannavale (incredibile), Stephen Graham e Anna Paquin. Ma sarebbero da celebrare tutti, in un cast formato da veri e propri mostri di bravura. Oltre a questo, Scorsese mette sempre del suo, presentando un comparto tecnico stratosferico, formato da una regia tecnicamente eccelsa, una scenografia quasi “viscontiana” (del resto, stiamo parlando di uno dei suoi registi preferiti) per la cura del dettaglio, una sceneggiatura “catchy” e grottesca (caratteristica dei suoi maggiori capolavori), una messa in scena praticamente perfetta e un montaggio da urlo.

The Irishman appare come un’epopea degna de Il Padrino (che cita sia nelle musiche che nella struttura). La cura dei particolari è maniacale e il ritmo dilatato garantisce la delineazione di un affresco gigantesco. Non stiamo parlando di un semplice biopic, ma di un vero e proprio spaccato dell’intera storia americana. Una storia basata sul sangue, sulla violenza e sulla corruzione. Uno sguardo critico alla società politica dell’epoca, avara, marcia, intrisa di guerra al potere.

Il film presenta un realismo accurato, risaltando una componente splatter sempre “stilosa” e mai gratuita, ben dosata, a cui lo stesso Scorsese ci ha abituato nel corso degli anni. La fotografia celebra perfettamente la New Hollywood, divisa tra opache incursioni diurne e luccicanti neon notturni che ci catapultano di nuovo negli anni ’70.

Il testamento

Detto di una CGI che forse si caratterizza come l’unica pecca del film, grossolana e anche fastidiosa, The Irishman è un vero e proprio addio. Non solo da parte di Martin Scorsese, ma anche dei suoi più fidi collaboratori: Al Pacino, Harvey Keitel, Joe Pesci, ma soprattutto Robert De Niro. Questi ultimi regalano una performance mostruosa, dando una lezione di recitazione a tutti gli attori in erba e ribadendo (se ancora ce ne fosse bisogno) la propria grandezza negli annali.

Il lascito, nostalgico, anche pessimistico in qualche modo, è anche il loro. E lo si avverte tutto nell’ultima parte del film e soprattutto nelle ultime scene, pervase da un senso di cupidigia che farà scappare più di qualche riva di pianto agli amanti del cinema. Sembra che, in qualche modo, questa sia anche la loro opera finale.

The Irishman è un film evocativo, che ha la sua forza in gente che ancora crede in un certo di tipo di cinema. Che allo stesso tempo, però, è consapevole che questa stessa tipologia è destinata a scomparire presto, in un modo o nell’altro. Nel frattempo, però, la lezione di tutti loro, da Scorsese a Pesci, è una sola: non è importante il tempo in cui arriverà la fine, ma il modo in cui ci si arriverà. E per ora, la porta è ancora “aperta“, come nel finale del film.