11 Gennaio 2018 - 11:53

“Tre manifesti a Ebbing, Missouri”: miglior film ai Golden Globe 2018

Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Martin Mcdonagh dopo “In Bruges” e “7 psicopatici” torna a raccontarci l’America con “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” vincitore di quattro Golden Globe: la recensione

Tre Manifesti a Ebbing, Missouri segue le tragicomiche vicende di una madre in cerca di giustizia per la figlia, che ingaggia una lotta contro un disordinato branco di poliziotti pigri e incompetenti. Dopo mesi trascorsi senza passi in avanti nelle indagini sull’omicidio di sua figlia, Mildred Hayes (Frances McDormand) decide di prendere in mano la situazione e “rimbeccare” le indolenti forze dell’ordine.

Sulla strada che porta in città, la madre furente noleggia tre grandi cartelloni pubblicitari sui quali piazza una serie di messaggi polemici e controversi, rivolti al capo della polizia William Willoughby (Woody Harrelson).

Lo stimato sceriffo di Ebbing prova a far ragionare la donna, ma quando viene coinvolto anche il vice Dixon (Sam Rockwell), uomo immaturo dal temperamento violento e aggressivo, la campagna personale di Mildred si trasforma in una battaglia senza esclusione di colpi, calci, schiaffi, morsi, insulti e frasi scurrili.

Presentato in concorso alla settantaquattresima edizione della Mostra del Cinema di Venezia (dove si è aggiudicato il premio per la migliore sceneggiatura), al Festival di Toronto e al Festival di San Sebastian, Tre manifesti a Ebbing, Missouri, in uscita nei cinema in Italia il 18 gennaio 2018, è diretto da Martin McDonagh.

Il cinema di Martin McDonagh è un cinema che fin dall’inizio, da “In Bruges”, proseguendo per “7 psicopatici”, si è sempre prestato, o meglio più che prestarsi, ha preso in prestito avidamente tutto quello che amava e tutto quello che poteva prendersi, riconoscendosi epigono, discepolo di un cinema anni ‘90 da rileggere. E forse, proprio 7 psicopatici, il suo film più sottovalutato, risente troppo di un accurato e schietto citazionismo, di richiami corretti e riletti del cinema di Tarantino, pur reinventandolo.

Le sue prime due opere sono un richiamo costante a qualcos’altro, a un’altra opera, a un’altra etichetta. Ciò che interessava di più di McDonagh era il suo black humour che paradossalmente nelle battute, nella sceneggiatura, nei personaggi, perdeva sapientemente in ordine decrescente di intensità e di forza. Ogni azione, ogni quadretto messo in piedi, funzionava apposta senza escalation. C’era nei momenti di iper violenza, nella messa a tappeto dei personaggi, nelle battute, un ridimensionamento, uno stallo, che strozzava le aspettative dello spettatore.

Fin dall’inizio sembrava che il suo cinema però si preoccupasse soprattutto di questo, restituire al cinema storie forti, scritte bene, dialoghi assortiti, restando incompiutamente cinema scritto, allontanandosi da uno sguardo accurato dietro la mdp. Sempre preoccupato alla iper narrazione, sembrava sfuggire a Mcdonagh, non solo un nuovo modo di “fare” storie, ma anche di inquadrare i suoi personaggi sotto lo sguardo del cinema, di creare un film prestato più alle immagini che alla parola.

Dopo cinque anni da “7 psicopatici” McDonagh torna con “Tre Manifesti a Ebbing, Missouri” (che è più bello dirlo in americano). Torna a raccontare la coscienza dell’America, rimanendo sempre fedele ai suoi maestri, continuando il suo percorso di rettifica del cinema americano anni ’90. Se “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è sicuramente vicino all’ultimo Tarantino di “The Hateful Eight” dove accanto ai riferimenti al giallo inglese più che al vero western a farla da padrone era un quadro politico spietato sul razzismo e sull’America del sud, McDonagh sembra più dichiararsi con amore sfrontato ai Coen. Da “Fargo” alle sfortune destinate al protagonista di “A Serious man”, il regista di origini irlandesi, considerato prima di tutto uno dei più grandi commediografi americani, raffina il suo citazionismo, trova finalmente una sua identità, ancora una volta sempre più nella scrittura che dietro la mdp.

Perché se è vero che “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, è scritto benissimo, ha dei personaggi grandiosi, è appassionante come non se ne vedeva da tempo, sembra che a McDonagh anche la regia sia tutta lì  nel creare ottimi personaggi, nel restituire dialoghi inafferrabili per loro loquacità, ricchi di parole pronte, facili e vivaci, dimenticandosi e perdendosi nella storia, immolandosi per essa. Non fotografando per immagini l’anima nera di ciò che a lui interessa da sempre raccontare, senza accarezzare mai il gusto per un’ottima inquadratura e per una buona tecnica.

McDonagh infatti, si perde nell’eccesso della parola e della sua narrazione avvolgente di coscienze cangianti e sofferte in un’America gretta e parassita, dove qualsiasi sistema, da quello famigliare a quello pubblico, è deflagrato. Tutti sono anti-eroi vicini alla metamorfosi e grandiosi proprio nella loro trasformazione scorretta e trasversale. Perché nel cinema di McDonagh tutto è politica, ed è politica più di tutto la parola. Lo dimostrano i tre Manifesti posti sull’autostrada della città. Sfondo a tinta rossa, senza estetica, dove sono impresse parole violente e sconvolgenti che rendono a meglio il messaggio nel suo più spietato compito, quello di arrivare agli occhi di tutti. E se non è un difetto rafforzare il compito perduto della parola, se non è un difetto comunicare e traslare dolore attraverso essa, è un difetto immolare le immagini per prosa.

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