1 Dicembre 2018 - 16:29

Tre volti, la recensione dell’ultimo film di Jafar Panahi

Tre Volti, Jafar Panahi

Dopo l’Orso d’Oro a Berlino per Taxi Teheran, Panahi torna con la sua nuova opera “Tre volti” miglior sceneggiatura al Festival di Cannes: la recensione

È difficile, anzi impossibile, guardare al cinema di Jafar Panahi, senza costringerlo, rilegarlo, ad un cinema che ne fa del suo estro, della sua libertà di filmare, della sua ribellione, un atto politico. Proprio come si discuteva in Taxi Teheran, Orso d’Oro a Berlino, il cinema di Panahi è diventato una didascalia dello stesso cinema iraniano, un “meta cinema” ci piace dire, in cui lo stesso regista è protagonista del montaggio, dei dialoghi, della direzione, della storia. Un cinema, quello di Panahi, che aderisce precisamente alla sovversione di un Paese che è proprio nella divulgazione, che è proprio nell’arte a sigillare il suo divieto più importante e imperante.

Tre volti

Quello stesso cinema, risuscitato a maggio allo scorso al Festival di Cannes, e purtroppo solo adesso nei nostri cinema, racconta la storia in cui proprio l’uomo iraniano regista, cittadino, si mette un po’ da parte per dare spazio a quella sommossa femminile, a quell’impeto diverso che caratterizza in tutto e per tutto Tre volti.

Tre volti è la storia che parte prima di tutto con un incipit clamoroso, doloroso, quello di una ragazzina della steppa dell’Iran, la steppa dei villaggi al margine di Teheran, fuori dalla città, fuori dalla civiltà divulgativa del suo precedente Taxi Teheran, un po’ gretta, un po’ sorda rispetto alla modernità già disintegrata, già negata dalla capitale dei suoi precedenti film.

È proprio da quelle sue prime opere, come Il palloncino bianco, che Panahi si posiziona sempre al centro del suo cinema, pur non essendo protagonista, pur non omologandosi fisicamente alle sue inquadrature. Ed è proprio per questo che il cinema di Panahi è un cinema pregno di umanesimo, di idealismo, un cinema che si porta dietro il marchio poetico, sistematicamente politico e “laborioso” del proprio autore.

Il film inizia proprio come inizia l’ultimo film Happy end, di Michael Haneke, con un video virale filmato da un telefonino in cui una ragazzina iraniana si suicida per il suo bisogno trasognato e incipiente, deluso infine, di diventare una grande attrice, una grande icona del suo paese. Quel paese che obbliga alla tradizione ancora, quella ottusa e acuta di un sistema che non crede all’emancipazione artistica. Eppure di cinema grande, in Iran, se ne fa. E non basterebbero i nomi di Farhadi e di quel gigante di Kiarostami. Lo stesso regista Panahi in viaggio in macchina con uno dei più grandi talenti del cinema e della televisione dell’Iran, un’attrice che fin dall’inizio dispera per il video virale e crede che sia solo un’operazione di montaggio ben riuscita e non un vero suicidio, si metteranno alla ricerca di quella stessa ragazzina suicidata, sulle tracce della sua famiglia, e del popolino che campeggia nella grande dimora che è la campagna dell’Iran.

Il cinema ipertestuale di Panahi

Tre volti cerca di bissare il successo intellettuale di cui era stato bardato Taxi Teheran. Intellettuale perché sembra davvero difficile guardare oggi il cinema di Panahi senza conoscere la storia del suo Paese, intellettuale perché ancora una volta Panahi si serve dei suoi scrupoli da regista, dei suoi sensi di colpa di cittadino per illustrare una storia, per compensarla con una poetica che è unica solo del suo cinema. Intellettuale ancora perché, Tre volti oltre ad essere un film sulla bontà e la “bellezza” dei margini di qualsiasi mondo e paese, è prima di tutto un film sull’amico regista scomparso Kiarostami. E’ un film che cita senza perdere la cognizione e la bussola di se stesso strizzando l’occhio al panorama cinematografico della sua terra. Intellettuale infine perché sarebbe impossibile rilegare il cinema Panahi ad un discorso di poetica e di attrattiva nei confronti dei suoi personaggi sinceri e goffi senza guardare al mega mondo di cui si circonda e in cui aderisce come la terra sconfinata di violenza e di ingiustizia del suo Iran.

L’inquadratura nel cinema di Panahi

Insomma, il cinema di Panahi è un cinema impossibile da scindere, un cinema intellettuale in cui lo scherzo, la remunerazione, il diletto vanno di pari passo con l’inquadratura, quell’inquadratura che non smette mai di aggiungere cose, di ricalcare discorsi, un’inquadratura più che intellettuale, politica, pur se casereccia, pur se quasi documentaristica ed amatoriale.

È proprio in essa che oggi Panahi trova un equilibrio tra quello che si può dire e quello che non può essere detto. Un rifugio costante per illustrare teoremi, idealizzare un mondo. Un’inquadratura soprattutto, per sovvertire un’abitudine, per liberare i confini del suo Paese. Non è un caso che sia l’ultimo piano fisso di Taxi Teheran sia quello di Tre volti ci lascino con una poesia e con una metafora, con una “ratio” impossibile da leggere nelle nostre emozioni senza una rilettura vicina e costante ad opera dell’intelletto, senza rimuginarci sopra anche dopo la fine del film.

È proprio questo che soprattutto negli ultimi anni fa Panahi, ci parla politicamente attraverso la propria visuale, delibera sentenze, trova il suo punto di estrema libertà filmica e di ragionamento nelle immagini. Come all’inizio, in cui gioca con il cinema con un telefonino e con uno stacco di montaggio “non visibile” e “ben riuscito” nel mostrare un suicidio da “rappresentarsi” e “rappresentato”, come quando gira il suo film in macchina per aderire ad un altro cinema scomparso come quello di Kiarostami, come quando dopo al video virale subentra lo stacco e il volto di una donna fissato per minuti che sembrano raccontare una realtà femminile e artistica oltre che una quotidianità e il dolore e il viaggio di una donna.

Perché l’ultimo cinema di Panahi scalza dalla scena lo stesso ego di un regista buono dalla telecamera, scalza l’infantilismo pestifero dell’uomo, scalza la sua gretta ossessione per le regole, e mette in ribalta, cerca a tutti i costi, il ruolo della donna come artista.

Il volto della donna

Allora l’ultimo film di Panahi non è solo un cinema costretto, non è solo un cinema sulle tante strade da prendere per fare spettacolo e per “l’essere qualcuno” di un maschio, ma è soprattutto un focus sulla condizione di fare cinema e di essere cinema del sesso opposto, quello scambiato per debole, delle donne.

Tre volti è un cinema non solo sui sensi di colpa di chi in Iran ha la possibilità di parola e di creare, non è un film sul chi “può farcela” ad essere più emancipato di altri, ma è soprattutto un film-senso di colpa, sui ruoli (perché no) dello star system iraniano, un film che non guarda solo all’impossibilità di filmare e credere nell’arte, ma anche un film su chi quell’arte non l’ha mai compiuta.

Su un regista e un’attrice che lottano per crearla quella divulgazione un po’ ipocritamente, perché nel loro stesso paese da benestanti non fanno comunque abbastanza per irradiare quei margini campestri, bucolici, di una speranza di cui forse essi stessi si sono fatti sempre portavoce, illusoriamente.