America Latina: D’Innocenzo e la ricerca stilizzata
Con "America Latina", i D'Innocenzo si improntano sull'iper-stilizzazione estremizzando il concetto di "Favolacce". Ma non tutto funziona
Con “America Latina”, i D’Innocenzo si improntano sull’iper-stilizzazione estremizzando il concetto di “Favolacce”. Ma non tutto funziona
Da Venezia con furore. Il furore è quello delle ultime settimane. Queste hanno riguardato da vicino proprio loro, i fratelli D’Innocenzo, finiti al centro dell’attenzione per via dei fatti successi su Instagram. D’altro canto, questa improvvisa polemica nei loro confronti ha rischiato di far passare in sordina un accadimento importante: quello dell’uscita del loro nuovo film. “America Latina“, dopo essere stato al Lido, è approdato finalmente nei cinema, con tanto di buoni propositi.
Reduci dal successo legato a “Favolacce“, che in qualche modo li ha consacrati effettivamente all’interno della realtà italiana e internazionale, i due registi ora tornano all’assalto. L’intento è quello di estremizzare ulteriormente la propria idea di cinema. Ci si vuole mostare al contempo lucidi e in grado di sondare ancora più in profondità la realtà che li circonda da vicino. La costruzione dei mondi legati ad “America Latina” è davvero interessante. Davvero ricca di sfaccettature (sebbene non unica), e anche il modo d’approccio al racconto risulta inizialmente originale.
Ma forse la stessa sostanza di “America Latina” si spezza come un dente (similitudine dovuta) sotto i colpi di un cinema che diventa troppo ambizioso. Un cinema che, probabilmente, aveva bisogno di ulteriore coraggio per essere sostenuto e di una maggior voglia di “andare fino in fondo”. Perché, se c’è un difetto (grande) nel nuovo capitolo dei D’Innocenzo, è proprio quello di smarrire, ad un certo punto, la propria identità che tanto bene si era formata inizialmente.
Ma andiamo con ordine e scandagliamo l’anima di questo nuovo capitolo.
I segreti più reconditi
Raccontare di cosa parla “America Latina” senza imbattersi nel rischio di potenziali spoiler o comunque di dettagli importanti è molto difficile. Pertanto, il canovaccio pianificato dai fratelli resta molto asciutto, minimale. In primis, siamo ancora una volta di scena in quella periferia romana già messa a soqquadro nel precedente “Favolacce“.
In quel di Latina, si erge un panorama quasi post-apocalittico. Un panorama fatto di zone paludari inabitate e bonificate, centrali nucleari dismesse e pezzi di terra completamente incolti. Qui vive Massimo Sisti (Elio Germano), dentista benestante titolare del proprio studio. La sua vita è agiata, fatta di una villa lussuosa, una famiglia composta da sua moglie Alessandra (Astrid Casali) e le sue due figlie Laura e Ilenia (Carlotta Gamba e Federica Pala).
La sua vita scorre tranquilla, fino al giorno in cui l’impossibile irrompe nella sua vita. Il dentista scende in cantina e trova l’imprevedibile. Quest’incontro comincerà a mandare in pezzi la sua psiche e a farlo dubitare di qualsiasi cosa, portandolo ad uno stato di paranoia e inquietudine nei confronti della sua vita.
“America Latina” ci porta a fare un viaggio nei meandri più reconditi di Massimo.
L’abbandono della sostanza
In “America Latina“, i D’Innocenzo intraprendono un discorso davvero molto coraggioso. Un discorso che in qualche modo continua la linea, il solco già tracciato in precedenza con “Favolacce” e lo pone ad un livello ancora più straniante ed estremo. La voglia di sondare le stranezze della realtà borghese, che in qualche modo riprende i modelli di Lanthimos (“Dogtooth“, richiamato anche in una scena specifica) e di Haneke (da “Il Settimo Continente” al più noto “Funny Games“), d’altronde, è la stessa.
Ciò che cambia, però, è in primis la forza del racconto, molto più intimo e meno grottesco, e poi l’intento complessivo del film. Perché “America Latina“, concettualmente, assomiglia molto di più ad un esempio di video-arte che nemmeno ad un film narrativo effettivo. L’operazione è molto interessante. La discesa negli inferi “personale” del protagonista Elio Germano è uno strumento sfruttato dal punto di vista prettamente stilistico. Questo cambio di focus permette di scarnificare all’osso il racconto, di asciugare e semplificare lo script per permettere di imperniarsi sul tecnicismo.
Un intento assolutamente lodevole, in cui i D’Innocenzo scelgono la strada dell’estetica e di affidarsi contemporaneamente a pochi elementi narrativi. Ma soprattutto, è un modo più agevole per contaminare la propria poetica “periferica” con il nuovo cinema europeo fino ad andare a finire nei campi dell’horror sperimentale più asfissiante e il trap-movie più puro. Si potrebbe dunque dire che “America Latina” è un ampliamento della poetica dei due registi.
Poetica che, però, resta purtroppo poco definitiva e fumosa.
Inversione di marcia
C’è qualcosa, in “America Latina“, che porta naturalmente a pensare ad una chiara occasione sprecata da parte dei due registi romani. Infatti, il film, purtroppo, denota una scarsa coerenza, che fa crollare dei presupposti che già durante la prima parte del film si erano riscoperti molto fragili. Un’operazione che poteva essere interessante si normalizza e purtroppo si banalizza. A denotare questo cambio di rotta repentino è un’ossessione tra le più brutte del cinema moderno: quello che collega il thriller al plot twist.
Sembra quasi che debba essere una regola non scritta (d’altronde, di un thriller stiamo parlando, per stessa ammissione della tagline del film) quella di avere un plot twist che ribalti la situazione. Una concezione vecchia del genere, che rende l’operazione incerta, confusionaria, banalizzandola tramite risvolti psicologici troppo telefonati. Il focus scelto dai D’Innocenzo, più che aumentare la carne al fuoco, fa bruciare quella già cotta, relegando all’implosione tutto quanto costruito precedentemente.
Tralasciando una prima parte di film dove le soluzioni varie e sperimentali in cabina di regia risultavano molto più impressive, il risultato è quello di restare con un pugno di mosche. L’estetica di “America Latina” cede sotto i colpi di una banalità contenutistica, previa di strutture riciclate. E ciò aumenta a dismisura il rimpianto per quella che poteva essere davvero un’intuizione interessante per il cinema italiano.
Un’intuizione che riesce a lasciare strascichi anche in Elio Germano. Il suo Massimo Sisti, inizialmente molto oscuro e intrigante, incomincia a finire sempre più sotto le macerie insieme al film stesso, fino a rivelarsi una figura purtroppo banale, nonostante una buona recitazione.
Così quella dimensione sperimentale e formale, che tanto interessante l’aveva reso inizialmente, risulta completamente annullata. La ricerca stilizzata, potenzialmente interessante, diventa purtroppo solo un’illusione. Ed è davvero un peccato.
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