19 Febbraio 2016 - 00:07

Apple e Google insieme per la privacy

Apple e Google

Apple ha deciso di non adempiere agli obblighi del giudice, Google le da ragione. Cosa succederà?

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Una notizia che sta facendo il giro del mondo, e che sta creando non poche tribolazioni negli Stati Uniti d’America. Proviamo a fare chiarezza e a capire cosa sta, effettivamente, accadendo.

Il caso

Colpi di arma da fuoco, 14 morti e 23 feriti (tra cui due poliziotti). Erano le ore 11:00 circa, in maschera ed armati, marito e moglie irrompono nell’Inland Regional Center di San Bernardino, un centro per disabili, e fanno fuoco sui presenti. La fuga, dopo 2 chilometri d’asfalto, ha portato alla morte dei due attentatori: Syed Rizwan Farook e Tashfeen Malik.

Il giudice federale di Los Angeles, su richiesta della FBI, ha richiesto ad Apple di fornire assistenza e supporto tecnico per indagare nei contenuti dell’iPhone 5C dell’attentatore – deceduto – Rizwan Farook.
Ed ecco aprirsi uno scenario incredibilmente inaspettato: l’azienda, con le parole di Tim Cook, CEO di Apple, ha scelto di contravvenire a quanto prescritto dal giudice.

Le motivazioni di Apple

La richiesta del giudice da vita, secondo Apple, ad un precedente pericoloso.
Tim Cook mostra, infatti, seria preoccupazione nei confronti della privacy dei clienti di Apple, aprendo le porte a future possibili interventi analoghi da parte del governo, al di fuori del caso legale in oggetto. L’azienda, infatti, non ha negato in alcun modo di collaborare con FBI, come fatto durante la fase d’indagine, ma pone sotto i riflettori il vero problema: si tratta di creare un software capace di sbloccare, fisicamente, ogni iPhone sul mercato, attivato o da attivare. Il governo, indubbiamente, sostiene di non volerne far uso oltre i confini del caso specifico, ma quale garanzia viene concretamente offerta?

Tim Cook

Tim Cook, CEO di Apple

Le richieste del giudice

Ad Apple è stato chiesto, con cinque giorni di margine decisionale, di bypassare tutti i blocchi e le protezioni dell’iPhone incriminato: superare il codice di sblocco, ed anche quello di auto cancellazione dei dati, così da consentire agli investigatori di inserire infiniti codici di sblocco sul terminale. Il procuratore, insistendo, ha puntato il dito verso l’azienda fondata, tempo fa, da Steve Jobs: è, infatti, la sola ad avere i mezzi tecnici per affrontare questa “sfida”.

Il problema mediatico

A portare il caso in televisione, accendendo la polemica, è stato Donald Trump, pronto a cavalcare ogni onda possibile durante la sua corsa alla Casa Bianca.
Ovviamente l’imprenditore che sta facendo parlare tanto di se, ultimamente, ha puntato il dito accusatorio contro Apple.

Non è tardato il supporto alla scelta di Cook, sorprendentemente da parte di Sundar Pichai, CEO di Google. Anche in Google l’idea che un software, lasciato nelle mani del governo o di altri enti, in grado di hackerare i dispositivi degli utenti, mette a rischio, in modo concreto, la privacy degli utenti.

Anche Pichai, infatti, parla di precedente pericoloso. Le motivazioni, infatti, sono analoghe a quelle apportate da Tim Cook: Apple, così come Google, offrono prodotti sicuri, per proteggere le informazioni degli utenti, non manca da parte delle aziende il supporto alle pubbliche autorità quando espressamente richiesto e legittimato, perché mai abilitare l’hacking dei dispositivi?

Sundar Pichai

Sundar Pichai, CEO di Google

Le voci di contorno

Edward Snowden ha dato il proprio supporto alla decisione presa da Apple di non acconsentire alla richiesta del procuratore.

Jan Koum, CEO di WhatsApp, esprime solidarietà a Tim Cook, quindi a Sundar Pichai: la libertà è a rischio.

Mark Surman, CEO di Mozilla, non tarda a dare il proprio supporto ad Apple. Ancora una volta si parla di rischi per la libertà e per la privacy, spostando l’attenzione sul ruolo delle diverse aziende: creare sicurezza, non minarla, per i proprio consumatori.

Altre aziende, tramite il canale ufficiale di Information Technology Industry Council – ITIC – non mancano di dire la loro.
A comporre ITIC sono Yahoo!, AOL, Facebook, Evernote, Dropbox, LinkedIn, Microsoft, Twitter (ma anche Google ed Apple) e l’opinione espressa è molto chiara: bisogna collaborare con le autorità per contrastare criminalità e terrorismo, ma chiedere alle aziende stesse di essere bypassate, senza alcun controllo, minando la sicurezza degli utenti, è qualcosa che va ben oltre il ragionevole.

Immancabile la voce di McAfee, creatore del famoso antivirus, che ha proposto ad FBI di decriptare, con il suo team, l’iPhone incriminato, senza dover chiedere ad Apple un accesso incondizionato, e universale, a tutti i dispositivi. Anche per costui la richiesta, infatti, appare irragionevole e pericolosa.

Cosa pensano gli esperti?

Matteo Giovanni Paolo Flora, creatore di The Fool, società che si occupa di reputazione online, spiega cosa sta succedendo.

Il giudice, con la richiesta di FBI, richiede di disinnescare il sistema di protezione da attacchi brutali dell’iPhone di Apple. Quanto richiesto è particolarmente inquietante. Superando le barriere di protezione, rendendole pressoché inutili, non da alcuna garanzia all’utente fruitore del terminale sulla sicurezza delle proprie informazioni.

Il passe-partout richiesto ad Apple è, indubbiamente, visto negativamente: sarebbe come regalare le chiavi di casa a un terzo estraneo. Chi mai lo farebbe?

«L’indebolimento della sicurezza con l’obiettivo di far progredire la sicurezza semplicemente non ha senso».

FBI

Il logo di FBI: Federal Bureau of Investigation

Cosa sta accadendo in USA?

Zucconi, giornalista di Repubblica, racconta una spaccatura: molti vorrebbero l’apertura del sistema di Apple, tanti altri, invece no.
Qualcuno percepisce, infatti, l’azienda poco “patriottica”, ma allo stesso tempo si dovrebbe comprendere che Apple non produce solo prodotti per l’utenza privata, bensì offre anche supporto IT per numerose aziende ed un sistema che ne mina la sicurezza di gestione dei dati darebbe un colpo assai negativo alla reputazione aziendale.

Il caso, indubbiamente, finirà alla Corte Suprema, ma i problemi non sono finiti: i giudici, in numero di otto, sono per metà a favore e per metà contro la decisione del giudice di Los Angeles.
Ci vorrà ancora tempo per dirimere la questione, in attesa della nomina di un nono giudice e di una sentenza definitiva.
I CEO delle aziende intervenute nel dibattito pubblico chiedono, però, di non vincolare tutto alla mera decisione di un organo governativo, ma di aprire un dibattito ampio e completo per affrontare il problema in modo serio, adeguato e corretto – sia per gli utenti, per le aziende che per le esigenze investigative.