23 Giugno 2020 - 13:10

Dispatches From Elsewhere: lo sci-fi anni ’50 e la metanarrazione

Prime Video Dispatches From Elsewhere

Con Dispatches From Elsewhere, Prime Video crea un mondo surreale, intimo ma attualissimo. E lo fa sotto i dettami dello sci-fi “vecchio stampo”

Prime Video stupisce senza dubbio. Ancora una volta, la piattaforma rivale di Netflix decide di puntare su prodotti particolari, che risultano freschi e nuovi sebbene attingano a tutta forza da qualcosa di pre-esistente. Questa volta, sembra che il servizio streaming di Amazon si sia voluto concentrare a piè pari su un genere che ultimamente (vedi anche The Vast Of Night) sembra voler rispolverare e riscoprire: la fantascienza anni ’50. Quella piena di mistero, fascino e arguzia. E così nasce Dispatches From Elsewhere.

Ma, in quella che all’apparenza sembra una serie TV normale, si nasconde ben altro. Infatti, Dispatches From Elsewhere è una rielaborazione, un aggiornamento. La serie è ispirata ad un noto documentario dai risvolti politici del 2013, chiamata The Institute, che ricostruisce la storia del fantomatico Jejune Institute, oggetto di un gioco interattivo nel mondo reale che coinvolse 10.000 partecipanti nella città di San Francisco, reclutati tramite bizzarri volantini. Insomma, assistiamo ad una delle rare volte in cui realtà e finzione si fondono per dar vita a qualcosa di assolutamente stravagante, unico nel suo genere e naturalmente anche affascinante, a suo modo.

Dietro tutto il progetto, vi è una persona molto conosciuta. Stiamo parlando di Jason Segel, che oltre a prestare anima e corpo al protagonista della serie, è anche il volto che l’ha ideata, il deus ex machina. Ed è interessante come sia riuscito a creare una serie che fa della sua umanità e del suo surrealismo la sua carta vincente. A conti fatti, stiamo parlando di un viaggio che, siamo sicuri, non lascia indifferenti gli spettatori. Ma andiamo con ordine.

Cambiare la propria vita

Ventidue secondi di silenzio e buio. Così esordisce Dispatches From Elsewhere, palesando fin da subito la sua completa stravaganza e il suo scostarsi rispetto alle classiche logiche televisive. Successivamente, sentiamo la voce di Octavio (il grandioso Richard E. Grant), leader del Jejune Institute, introdurci la storia di Peter (Jason Segel), modesto impiegato di una società di streaming musicale che somiglia molto a Spotify.

Peter è un uomo apatico, stanco, deluso dalla vita e da un lavoro noioso e sempre uguale che azzera ogni velleità di fantasia. Lui è solitario, tristemente fedele ad una routine quotidiana di sveglia, lavoro, pessimo cibo da asporto e televisione. Una sera, nota per caso degli strani volantini che promettono di poter far parlare telepaticamente con i delfini o di registrare su nastro i ricordi. Così entra in contatto con la cosiddetta Elsewhere Society, la quale gli assegna, in una sorta di gioco, degli incarichi che lui deve portare a termine con tre complici.

Questi sono Janice (Sally Field), Simone (Eve Lindley) e Fredwynn (Andrè Benjamin). Con loro comincerà un viaggio alla ricerca del “tesoro”, ma anche alla ricerca di sé stessi e di un senso dietro le intenzioni dell’Elsewhere e del Jejune.

Il gioco metanarrativo e il surrealismo

Fin da subito, colpisce come Dispatches From Elsewhere riesca a costruire una propria identità tramite la struttura della serie e le proprie caratteristiche. Ci ritroviamo, infatti, immersi in un universo metanarrativo, dove a condurre “il gioco” è un narratore, ovvero uno spaziale Richard E. Grant, che ci indirizza verso binari di cui noi non conosciamo l’effettiva veridicità.

Jason Segel architetta qualcosa di espansivo ma al tempo stesso intimo, raccontando una bella storia sulla diversità e sulla propria inclusività. Assume quasi i contorni di un viaggio esistenziale, Dispatches From Elsewhere, senza però risultare eccessivamente verboso e metafisico, ma anzi rendendo il tutto parecchio concreto e tastabile agli occhi dello spettatore. La serie non ha paura di prendere posizione, di schierarsi, di indirizzare verso una morale precisa: insieme siamo più forti. Il tutto impostando una trama intricata piena di misteri e colpi di scena interessanti.

Ed ecco che così prende anche piede il messaggio politico, tipico dello sci-fi anni ’50. Altro punto di forza è l’impianto narrativo, che sicuramente si ispira a serie cardini come Ai Confini Della Realtà, ma al tempo stesso se ne scosta garantendo qualcosa di profondo e originale. Anche tecnicamente, la serie gioca benissimo con la propria regia immersiva e con una fotografia semplicemente meravigliosa, improntata tutta su contrasti che riflettono anche i contrasti dell’anima dei protagonisti.

Protagonisti che, a proposito, sfoggiano prestazioni di altissimo livello. Se Jason Segel è perfettamente a suo agio nella sua fisicità impacciata, a sorprendere è la delicatezza e l’intimità di Eve Lindley, anche per il modo di trattare un argomento delicato come il cambio di sesso in modo non retorico e banale. Ottima anche Sally Field, in una parte commovente e struggente.

Pesantezza nel finale

Uno dei pochi difetti di Dispatches From Elsewhere è che, strada facendo, la vicenda diventa sempre meno sostenibile per gli spettatori medi. Infatti, il tono narrativo viene ripreso quasi totalmente dai “modelli” Gondry e Kaufman, che alla lunga risultano però troppo pesanti e eccessivamente stancanti per gli spettatori non abituati.

Anche la stessa storia, per quanto goda di un’autoreferenzialità fresca e spassosa, alla lunga risulta troppo cervellotica per tutti gli spettatori, che potrebbero anche risultare annoiati da ritmi lenti e profondamente riflessivi e da un surrealismo che è profondamente presente.

Insomma, una serie non per tutti, ma che, se amate le storie emozionanti, non potete far a meno di guardare.