8 Marzo 2019 - 16:10

I Villeggianti: Valeria Bruni Tedeschi e la finzione della verità

i villeggianti

I Villeggianti: la recensione dell’ultimo film di Valeria Bruni Tedeschi dopo “Un castello in Italia” presentato a settembre a Venezia

Quello che rappresenta più di tutto “I villeggianti” è sicuramente la conferma che con questa opera nuova, a differenza della più scadente e precedente “Un castello in Italia”, Valeria Bruni Tedeschi abbia qualcosa da dire ma soprattutto da raccontare cinematograficamente. Perché sì, se “Un castello in Italia” rappresentava una ricognizione familiare piuttosto fastidiosa, egocentrica, etnocentrica e senza nessun garbo, una sorta di esorcizzazione dei propri disagi, delle ossessioni della protagonista-regista Valeria Bruni Tedeschi, con “I villeggianti” si fa un passo in più. Fondamentalmente non un passo definitivo, perché forse per l’attrice Valeria Bruni Tedeschi la strada da fare da regista è ancora tanta.

Chi è Valeria Bruni Tedeschi

Attrice acclamata in Italia e all’esterno, sorta di feticcio del cinema d’autore francese ed europeo, artista che ha lavorato con uno dei più grandi registi lituani il cui nome è quello di Sharunas Bartas, sorta di equilibrio pirandelliano nell’oscillare continuamente tra isterismi, caricature emotive e personalità schizofreniche recitate con la finzione e impresse con lo spirito della realtà, firma il suo secondo lavoro da regista esuberante, disinibita, senza mezzi termini, presentato a Venezia. Anche questo “I villeggianti” è un’operazione se non al pari, simile a “Un castello in Italia”. Si parte sempre da un punto di vista ristretto, quello di un microcosmo familiare agonizzante in un luogo lontano da tutti. Prima il castello, adesso la Costa Azzurra.

I personaggi tra finzione e realtà

Valeria Bruni Tedeschi, moglie affranta dalla continua separazione, dal continuo viaggio di partenza e di ritorno del suo amato e amante Riccardo Scamarcio, una sorta di luogo cinematografico più che un personaggio, strappato di peso dal cinema francese di Philippe Garrell. Bello e dannato, vittima dei suoi sentimenti repentini e delle sue personalità sempre al limite. Valeria Golino interpreta la sorella di Valeria Bruni Tedeschi che non è nient’altro che l’alter ego di quella che è la sorella biologica della regista, Carla Bruni.

Affranta dall’amore per un uomo troppo grande il cui mestiere è in decadenza, responsabile della perdita della sua unica possibilità di diventare madre, alcolista e fascinosa nel suo essere una figura femminile quasi estemporanea, decadente, alienata dalla condizione degli altri protagonisti. Infine, la vera madre di Valeria Bruni, sua zia, tutta gente aristocratica che combatte con la morte, con i propri sentimenti infinitesimali, ridotti quasi ad uno sguardo infantile, quasi ludico, e a volte ardente come gli amori impossibili della nouvelle vague.

Tutti insieme per le vacanze, compresa una sceneggiatrice che dovrà aiutare la protagonista a scrivere una sceneggiatura “che racconti davvero qualcosa” e che non sia per forza un cinema della realtà, ancorato alla verità sputtanata ai quattro venti della sua famiglia, ancorata soprattutto alla morte per AIDS di suo fratello, l’anima pulsante seppur assente di un film che gira in tondo intorno alla morte come presenza fantastica più che “fantasmica”.

Il cinema di Valeria Bruni Tedeschi

Tutti loro dovranno convivere con quella sorta di ingranaggio malefico e maldestro che li rilega apparentemente in una commedia radical chic, in una vita da “aristocratici” boriosi senza complessità confrontandosi con quell’insieme complesso e vitale della servitù, tanto cara e tanto vicina alla commedia francese di Molière, giusto per citarne uno tra i tanti citabili.

Perché sì, il cinema di Valeria Bruni Tedeschi è un cinema che si prende beffa della verità dei suoi protagonisti, tutti usciti da una mente che li ha vissuti “nella vita vera” per davvero. Personaggi cari e odiati dalla stessa protagonista che si firma dietro la sua opera come primo personaggio da ricreare per lo schermo e da biasimare. Ognuno di loro, se in “Un castello in Italia” era incorporato nel cinema, quasi un’ospite di un’opera di finzione, pur rappresentando personaggi non fittizi della realtà, ne “I villeggianti” fa un passo più dentro, non si incorpora, ma nasce nella stessa materia cinematografica.

Restituendo quella verità che solo il cinema come costrutto può restituire. Lavorando meglio, se non del tutto completamente, sulla sceneggiatura, quella che è l’impressione dell’opera nuova di Valeria Bruni Tedeschi è che sia un film prima di essere un’autobiografia, un cinema verità. Questo sicuramente giova la complessità e l’audacia di alcuni personaggi, li legittima, e “felliniamente” li serra in un racconto che guarda ad una vita privata senza essere mai esorbitante e oltremodo psicanalitico e logorroico. Non è un caso che quest’ultima opera sia piena di freschezza e di figure forti, autentiche proprio nel loro artificio di figure scritte prima su carta, realizzate prima di “realizzarsi”. Così qui sembra, se non completamente, ma per una buona parte, che ci sia davvero in Valeria Bruni Tedeschi la voglia di traslare figure universali in un microorganismo, quello familiare. Di dettare e tracciare un discorso non solo egoisticamente personale, ma addirittura politico su un’attrice e su un posto, quello della Francia, in continuo dirottamente intimo e sociale con l’Italia. Proprio come è divisa la sua protagonista, tra l’Italia e la Francia, sia artisticamente, sia come cittadino che come personalità.

La personalità cinematografica di Valeria Bruni Tedeschi

Personalità che assume anche il suo cinema pian piano, pur assomigliando a molte cose, pur prendendo il più possibile dal cinema esistente, attori dal cinema di Dumont, attrici dal cinema di Jean Pierre Jeunet, e gli istrionismi, le particolarità percettive e visive, il modo di muoversi e afferrare l’invisibile dal grandioso cinema di Pierre Salvatori. Con una colonna sonora tra il pop di Nada, e la musica alta di Rossini con il Duetto dei gatti, la serenata di Shubert e Bach, il valzer di Chopin continua quella che è la natura cinematografica di Valeria Bruni Tedeschi, completamente sincera con il materiale cartaceo prima della pellicola e con le immagini subito dopo.

Natura ibrida divisa, forse finalmente in risoluzione, tra il panorama mozzafiato francese e il retroscena italiano che viola tutti i meccanismi di una Francia di facciata, perbene eppure sull’orlo della catastrofe e del fallimento. Due Paesi che risultano sempre più gemelli, seppur in contrasto, uno Romolo, l’altro Remo.