Jobs Act: quando la riforma del lavoro divide
La nuova riforma del lavoro (il c.d. Jobs Act), che ha introdotto una serie di novità nell’ambito, sta creando non solo delle forti tensioni fra il partito di maggioranza relativa (PD) e il sindacato dei metalmeccanici (FIOM) ma anche, in maniera non visibile, uno scontro fra “vecchi” e “nuovi” lavoratori
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Il Jobs Act, infatti, imposta un nuovo impianto basato su quattro pilastri:
- Nuove tipologie contrattuali
- Superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori
- Contratti di apprendistato
- Demansionamento e licenziamenti collettivi/individuali
I primi due punti del Jobs Act sono strettamente legati fra loro, in quanto rappresentano le assolute novità in ambito lavorativo.
Vengono, infatti, riformulate tutte le tipologie contrattuali (comprese quelle atipiche come co.co.co e co.co.pro) e viene introdotto un nuovo tipo di contratto unico detto “a tutele crescenti”.
Le famose “tutele crescenti” si collegano direttamente al discorso sull’art.18: in nome della competitività e della ripresa economica viene eliminata definitivamente la protezione per i lavoratori da licenziamenti illegittimi, sancita dallo stesso articolo, introducendo il principio “più anzianità più diritti”. In questo caso si crea una situazione tale per cui i neo-assunti rischiano di ritrovarsi in una posizione simile, se non peggiore, a quella dei contratti atipici precedenti (non avendo alcun diritto garantito) e la tanto acclamata stabilità lavorativa verrebbe ridotta ad un lumicino.
Inoltre, si rafforza la subordinazione dei “giovani lavoratori” non solo nei confronti dei “datori di lavoro” ma anche in quelli con maggiore anzianità di impiego (“garantiti” maggiormente in base al Jobs Act).
A peggiorare la condizione dei neo assunti è anche l’assetto fondato sui contratti di apprendistato.
L’apprendistato è stato introdotto con la legge n 92 del 2012 (c.d. Riforma Fornero) che è intervenuta anche sulla disciplina di questa tipologia contrattuale, incidendo sul regime della durata, sul numero complessivo degli apprendisti in servizio e sul regime delle conferme dei lavoratori apprendisti.
L’intervento dell’allora Ministro del Lavoro, però, ha generato una situazione drammatica con un abuso dello strumento che ha prodotto da un lato eterni apprendisti e dall’altro dei veri e propri “lavoratori stagionali”. L’attuale riforma, nonostante il fallimento precedente, continua a puntare sulla stessa strategia, creando di fatto i presupposti per il perpetrarsi di una situazione già di per sé complessa.
Altra novità, che aggrava le condizioni generali, è quella dettata dal quarto punto. Il duplice impianto (demansionamento/licenziamento) scardina tutte le regole base dello Statuto dei Lavoratori.
Il de-mansionamento (vietato in origine dallo Statuto dei Lavoratori) , far passare il lavoratore da una mansione all’altra in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale, è strettamente legato all’omissione della causale nel contratto di lavoro.
La mancata specificazione del preciso ruolo nel contratto di lavoro, infatti, rende più semplice la flessibilità di incarico e allo stesso tempo permette una più agevole conversione di ruolo.
Collegato a questo tema è quello dei licenziamenti; accanto ai licenziamenti individuali, in cui è previsto un indennizzo al posto del reintegro (con due mensilità per ogni anno di anzainità, con un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità), il Jobs Act introduce i licenziamenti collettivi per ragioni economiche e disciplinari (fatta salva l’ipotesi in cui sia accertata “l’insussistenza del fatto materiale contestato”). Anche in questo caso, diversamente dal precedente impianto, è previsto solamente un indennizzo economico e non il reintegro, in caso di ingiustificata causa, sul posto di lavoro.
Nonostante il superamento dei tanto criticati “contratti atipici”, il Jobs Act consegna l’intero mondo del lavoro ad un futuro incerto e senza alcun tipo di tutela, dove lo scontro generazionale viene accentuato e, addirittura, legittimato.
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