1 Agosto 2019 - 16:08

Midsommar: il lutto come veicolo per la rinascita

Midsommar

In Midsommar, sua seconda opera, Ari Aster torna a parlarci della maturazione del lutto. Il tutto in un’opera che rivisita i canoni del genere horror

Ari Aster non è un professionista di lungo corso. Anzi, si potrebbe definire come un vero e proprio neofita del cinema. Alla “tenera” età di 33 anni, ha avuto il coraggio di prendere un genere molto versatile come l’horror, girarlo e adattarlo ai suoi canoni, alle sue ricette, al suo modo di vedere la vita. Già nel suo primo lungometraggio, il mitico Hereditary, uscito l’anno scorso con il plauso unanime della critica, aveva evidenziato come il suo cinema fosse qualcos’altro, andando al di là di ogni genere o stereotipo. Dunque, la curiosità per Midsommar era spasmodica.

Quest’anno (anzi, quest’estate) il regista ci ha calato in un contesto completamente diverso rispetto a quello già vissuto in Hereditary. O almeno, così sembra a primo acchito. Perché in realtà Hereditary e Midsommar sono quanto di più simile possa esistere in “natura” cinematografica, a testimonianza di una compattezza e di una visione di cinema innovativa. Quello di Ari Aster non è un cinema “horror”, ma un cinema autoriale. E al centro di quest’autorialità ci sono, ancora una volta, due concetti essenziale della natura sociale dell’uomo: la famiglia e l’elaborazione del lutto.

E dei due topos centrali della narrazione è portatrice la nostra protagonista Dani (una volubile Florence Pugh). Lei è il punto centrale, il focus su cui tutta la narrazione del film “balla” (sì, è proprio il caso di dirlo) e si rovescia completamente nel corso della visione del film, scioccando lo spettatore. Il cinema del regista statunitense riesce a far riflettere e a turbare allo stesso tempo.

Ma andiamo con ordine.

Una morte in famiglia

Come detto più volte, la famiglia è l’elemento principale del cinema di Aster. E proprio da una famiglia che si sgretola parte Midsommar. La giovane Dani perde i suoi genitori in un incendio provocato dalla sorella, che apparentemente si suicida. Questo dolore diventa l’unico collante che la lega al fidanzato Christian (un “sonnolento” Jack Reynor), con cui è in crisi. Gli amici di lui, Mark e Josh, però, organizzano un viaggio in una remota zona della Svezia, il villaggio di Harga, dove una folkloristica comunità del luogo organizza un festival. Dani non era contemplata nella fuga tutta al maschile, ma Christian decide comunque di portarla con sé.

Una volta arrivati lì, i giovani americani vengono accolti da una comunità pacifica, legata da pace, amore e da una “passione” per i riti sacri che riesce a far da collante e mantenerla intatta. Vengono accolti dal loro amico svedese Pelle e da suo fratello Ingemar. Man mano che passeranno il tempo con la comunità, però, si renderanno conto che quest’ultima è tutt’altro che innocua.

I loro riti, infatti, a base di droga e di morti macabre, saranno l’inizio dell’incubo per la “crew” in viaggio. Un incubo di mezz’estate in cui verranno offerti ben nove sacrifici umani in favore di un culto che non ha assolutamente nulla di religioso.

Tra Noè e The Wicker Man

Tiriamo in ballo due grandi del cinema, nella fattispecie un grande regista e un classico del folk horror. Aster attinge a pieno da queste due fonti, aprendo una dimensione psichedelica e onirica del film (legata anche all’uso delle droghe) e una forte critica alla religione (il conflitto tra paganesimo e cristianesimo è evidente) e agli usi e costumi delle vecchie tradizioni. Il tutto in maniera disturbante.

Ancora una volta, al centro della narrazione, vi è una crisi familiare e un lutto. Ciò diventa un vero e proprio marchio di fabbrica per un horror originale e particolare. Midsommar si infila di diritto nel filone del “folk horror”, affiancando capolavori come The Witch e The Wicker Man (omaggiato nel ferocissimo finale), a cui non ha nulla da invidiare. Aster riesce ad indagare i rapporti umani che regolano le relazioni, prendendosi tutto il tempo per svilupparli.

Diciamo da subito che questo non è un horror per chi ama gli jumpscare. L’orrore, qui, è viscerale, psicologico, guidando lo spettatore pian piano, fino all’esplosione di sangue. Un orrore che disturba (le scene di sesso esplicite sono tra le più strambe di sempre), diventa grottesco e regala una visione della società fortemente a trazione femminile.

Il finale è fortissimo, la musica risulta ipnotica e trascina subito nella dimensione onirica del film. A questo, si aggiunge un lavoro tecnico invidiabile, con una regia squadrata, precisa, piena di pianosequenze, ma anche virtuosa e sempre pulita e una fotografia enormemente candida e accecante. Una novità per un genere “cupo” come l’horror. Ad un comparto visivo e tecnico notevole, si aggiunge un lavoro di montaggio vario, che non annoia mai. Dissolvenze incrociate e slow-motion rendono solamente più “agonizzante” la narrazione.

Insomma, se qualcuno avesse ancora dubbi sulla validità di Aster alla regia, questi ultimi sono stati fugati del tutto. In più, il regista si riserva anche un discorso molto negativo sull’uso della tecnologia, che è in qualche modo un’ossessione per i protagonisti. Un film che guarda sì al passato, ma non disdegna critiche al futuro.

La scrittura

Midsommar, però, nonostante un impianto davvero incredibile, non è perfetto. Il film pecca forse in uno degli aspetti più importanti, soprattutto se si tratta di un film horror: la scrittura della sceneggiatura. Nonostante un buon umorismo grottesco, il film riesce a rendere forzati tutti i dialoghi.

Non sono poche le volte in cui vediamo espressioni e turpiloqui quasi costretti, come se il regista (autore anche dello script) avesse voluto strafare per voler stupire a pieno. A questo, si aggiungono anche delle sottotrame alquanto scontate. Il destino di Mark e Josh appare chiaro fin da subito. Anche quello di Christian viene da subito indirizzato verso un binario da cui non si scosta, poi, fino alla fine. Ciò denota un po’ di superficialità in vicende che sarebbero potute essere approfondite meglio.

Naturalmente, però, stiamo parlando della seconda opera di un regista che, giovanissimo, continua a stupire e che sicuramente regalerà altre perle. Dunque errori di questo tipo non possono che fare bene.