Watchmen: l’identità del supereroismo americano e l’eredità
Con Watchmen, Lindelof mette a segno un colpaccio inimmaginabile e regala una serie rivoluzionaria. Destinata a riscrivere l’intera storia
Diciamoci la verità: tutti quanti, al suo annuncio, siamo stati pervasi come da un senso di terrore misto ad eccitazione. Fosse stato qualunque altro fumetto (e qualunque altro fumettista), la faccenda sarebbe stata molto più semplice. E invece no, Damon Lindelof, l’uomo dietro un capolavoro come Lost, dietro un’ottima serie come The Leftovers, questa volta tenta il passo più lungo della gamba. Decide di adattare in una serie TV una delle più grandi opere sociopolitiche di sempre, uno dei capolavori di quel genio chiamato Alan Moore: Watchmen.
Ma non decide di fare un remake del pessimo adattamento del 2009 targato Zack Snyder. No. Decide di buttarsi in un’impresa ancora più stoica: realizzare un sequel della graphic novel. E qui nasce l’incognita. Perché, sebbene sia una delle menti più forti, degno scudiero di J.J. Abrams, della serialità televisiva mondiale, l’operazione è davvero di quelle forti, quasi impossibili. A dirla tutta, il sequel ufficiale di Watchmen a fumetti si sta già concretizzando, per mano di Geoff Johns, e si chiama Doomsday Clock. Ma questa serie TV non ha nulla a che fare (o quasi) con il fumetto sequel.
Lindelof prova ad attualizzare la distopia immaginifica del fumetto di Moore creando una narrazione profondamente veritiera. Soprattutto, fa quello che Snyder non è riuscito a fare. Perché l’opera di Moore non è mai stato un semplice fumetto di supereroi, ma è un meta-fumetto. Un fumetto di supereroi che parla degli stessi supereroi, di ciò che c’è dietro la maschera, che non lesina la critica sociale e politica. Ed ecco che la serie TV diventa molto più attuale di quanto si pensasse all’inizio.
Immergiamoci, quindi, in questa dimensione distopica.
Un omicidio a Tulsa
Le vicende di Watchmen incominciano nel passato. Nello specifico, la storia prende corpo durante i disordini razziali verificatisi a Tulsa nel 1921. Nel trambusto, un bambino, di cui non conosciamo il nome, perde i propri genitori. Subito dopo la vicenda si sposta nel 2019, prendendo un corpo attuale.
Qui ci confrontiamo con gli eventi post-Watchmen fumetto. Dopo l’attacco alieno a New York nel 1985, che sappiamo provocato da Adrian “Ozymandias” Veidt (un perfetto Jeremy Irons), il mondo è tornato all’ordine. Il Governo guidato da Robert Redford, presidente USA, ha varato una legge che permette agli agenti di operare a volto coperto per nascondere la propria identità, oltre che di servirsi di vigilanti autorizzati.
Tra di loro, un poliziotto resta gravemente ferito da un membro del Settimo Cavalleria, gruppo suprematista razziale che compie atti di terrorismo contro le minoranze. La particolarità è che loro indossano la maschera di Rorschach, noto vigilante facente parte degli ex-Watchmen. Ad investigare sul caso vengono chiamati Angela Abar (Regina King), alias Sister Night, che opera per conto del commissario della polizia di Tulsa Judd Crawford (Don Johnson) e Wade Tillman (Tim Blake Nelson), altro vigilante conosciuto con l’appellativo di Looking Glass. A loro poi si aggiunge Laurie Blake (Jean Smart), ex Spettro Di Seta II, ora agente FBI dell’unità operativa anti vigilanti.
Crawford, però, subisce un’imboscata da parte di un anziano uomo di colore in sedia a rotelle, che si scopre essere il bambino del prologo. Angela riceve una telefonata anonima che la indirizza a un albero nella campagna di Tulsa. Lì trova il cadavere del commissario e l’uomo, che sostiene di essere suo nonno e di essere a conoscenza di un complotto in atto, di cui faceva parte anche Crawford, e di averlo ucciso per questo.
Intanto, in una tenuta di campagna isolata, Adrian Veidt si intrattiene con i suoi domestici, testando nuove tecniche per abbattere le barriere umane.
L’eredità di Alan Moore
Non si può parlare di Watchmen senza citare il suo creatore: Alan Moore. A distanza di ben 33 anni, si può decisamente dire che il costrutto del fumettista britannico abbia avuto un’incredibile risonanza. Damon Lindelof fa qualcosa di incredibile, in questo senso. Non solo prende in eredità la storia supereroistica più politica di tutti i tempi, ma ne ricalca le linee principali attualizzandole. Addirittura, permea di eredità anche il finale stesso.
Ciò che ne scaturisce è un prodotto assolutamente rivoluzionario, qualcosa al di fuori di ogni logica televisiva vista finora. L’autore gestisce meravigliosamente la sceneggiatura della serie, giocando perfettamente su tre piani (presente, passato e futuro) contemporaneamente. Come fosse una sorta di Dottor Manhattan fatto uomo. L’utilizzo di flash-back lampo, piazzati ad hoc, garantiscono il legare di conversazioni anche distanti tantissimi anni l’una dall’altra.
La concezione di arte audiovisiva stessa viene completamente cancellata e riscritta, sotto i colpi di una regia perfetta e un approcciarsi al dramma spirituale che mai è stato visto in una serie supereroistica.
Tutti gli attori sono perfetti: dalla Jean Smart ironica e sconfitta, allo straordinario Yahya Abdul-Mateen II che dà un’impostazione teatrale al suo personaggio (con rivelazione sconvolgente). Vi è poi un Tim Blake Nelson in formissima, una Regina King che dimostra ancora una volta (se ce ne fosse bisogno, per un premio Oscar) le sue straordinarie qualità e un Jeremy Irons stratosferico nell’incarnare la stanchezza e il machiavellismo di Ozymandias.
L’attualità
La qualità è altissima. Regia, fotografia, ambientazioni ed effetti visivi sono di pregiata fattura per una serie televisiva. Il messaggio politico che Lindelof vuol dare è quello di un’America profondamente afflitta da facili ipocrisie, in cui tutti si sentono supereroi e in cui basta dire qualcosa fuori dagli schemi per diventarlo. In questo caso, è molto significativo che una persona dello spettacolo come Robert Redford sia presidente USA, a testimonianza che ormai tutti al giorno d’oggi possano “fare il presidente”. Anche Donald Trump.
Ma non solo. Anche il Settimo Cavalleria, che si riconosce nell’interpretazione sbagliata delle parole di Rorschach, di cui ricopia l’attitudine, ne è una facciata evidente. Così come è una facciata evidente la collisione tra politica e fenomeni razziali, spiegata dalla presenza di Joe Keene (un enigmatico James Wolk). Lindelof, con Watchmen, decostruisce il fenomeno razziale che sta colpendo tutto il mondo facendone capire l’insulsaggine. Così Watchmen diventa anche uno specchio sociale sulla realtà mondiale e sulla deriva dell’animo umano.
Del resto, lo stesso Lost era figlio del fumetto di Moore. La figura di Jon Osterman ha ispirato il personaggio di Desmond nella serie costruita proprio da Lindelof e J.J. Abrams. Quindi, chi meglio di un fan per scrivere il futuro? Watchmen è un sequel che non spiega, che dà per scontato tutto, enigmatico ma rivoluzionario. Sia nella forma che nello sviluppo. Perfetto così. E poi, finalmente, vediamo su schermo l’alieno gigante, il polipo che funge da cavallo di Troia per il piano di Veidt che Snyder aveva malamente evitato nel 2009. Cosa c’è di meglio?
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